Regole, leggi e legalità.
Immaginiamo di essere seduti a un tavolo rettangolare. È una sera grigia, uggiosa, tipicamente autunnale. L’unica maniera di ristorare il proprio corpo e il proprio cuore dal freddino stagionale è condividere una tisana o una birra in compagnia di qualche amico. Ah, naturalmente stiamo ipotizzando di vivere nel fantastico mondo No-Covid! A un certo punto della serata, l’amico Fritz, famoso non solo per il nome, ma per la capacità di risvegliare gli animi dal torpore, propone di rallegrare il consesso con un gioco di carte. Fantastico, perché no? Pensano e magari gridano le persone avvezze ai giochi da tavolo. Santi Numi, sospira la sottoscritta, Ilaria. Ilaria rappresenta, nel mondo reale come nel mondo ideale della nostra ipotesi, l’essere umano che non conosce le regole del gioco. E che per tale ragione prova disagio o difficoltà a giocare. Disagio, perché chi sa giocare giudica in un certo senso e non pazienta di fronte alla fatica o alla lentezza altrui nell’apprendere. Difficoltà, perché imparare le regole non è un semplice esercizio di memoria: imparare le regole significa apprendere ad agire in un contesto dinamico, influenzandolo a proprio vantaggio e/o a vantaggio collettivo. In un gioco, quando tutti sanno giocare – perché conoscono bene le regole, perché hanno giocato varie volte, si sono allenati e hanno sviluppato reattività e abilità – il gioco è divertente, bello. Prende. E altra cosa: chi sa giocare riconosce gli altri giocatori, ne percepisce la bravura e/o ne scopre il barare. Conoscere le regole permette perciò di controllare il gioco e di svolgerlo nella maniera migliore possibile, prevenendo storture e conflitti.
Bene, perché parlare qui di gioco? Perché gli amici seduti a un tavolo e pronti a interagire tramite un gioco di carte non sono altro che la riproduzione in piccolo di una dinamica che potremmo definire sociale. Una dinamica che si riproduce a diversi livelli e con diverse ampiezze e che rende viva e pulsante quella che noi definiamo società. La società, quale insieme di più individui, si basa su regole. Il diritto è lo strumento sociale fondamentale dell’essere umano: si configura come l’insieme di princìpi codificati allo scopo di fornire ai membri di una comunità regole oggettive di comportamento su cui fondare una ordinata convivenza. In altre parole, il nucleo essenziale dell’esistenza e permanenza di ogni agglomerato umano.
“Ubi societas, ibi ius”, dove c’è una società lì c’è il diritto, dice il noto brocardo latino, tante volte citato dalla mia Professoressa di Diritto Internazionale. Il Manuale di Diritto Privato del professor Guido Alpa utilizza, come esempio chiarificatore del concetto, il cosiddetto “apologo di Robinson Crusoe”: il naufrago, nel passaggio dalla solitudine all’incontro con un altro essere umano, necessita di dare e darsi regole di comportamento. Certo, Crusoe viveva su un’isola, di conseguenza la sua produzione normativa poteva essere contenuta, limitata ed essenziale. Nessuno di noi però è un Crusoe o un eremita. Le società con cui ci confrontiamo sono ampie e complesse. L’uomo vi ha affidato la cura di una serie molto vasta di interessi. Le nostre società si occupano di welfare; della difesa del territorio da nemici esterni e dell’ordine pubblico interno; dell’istruzione, cioè della comunicazione della conoscenza; dei trasporti di cose e persone; della produzione dei beni e dei servizi che vengono ritenuti essenziali o utili; dello svolgimento di attività culturali, ricreative; della prevenzione e risoluzione di conflitti tra individui; e tanto altro. Il perseguimento di questi interessi collettivi è possibile solo se esistono regole opportune, mirate e puntuali, alla luce del fatto che le regole sono quelle unità elementari sulle quali si sono costruite e si reggono le organizzazioni dell’uomo e le loro attività. Le regole comportamentali permeano, a ragione, qualsiasi attività e le strutture legislative degli ordinamenti contemporanei sono piene di leggi. La legislazione ha invaso tutti gli ambiti dell’esistenza umana, perfino i più privati e per lungo tempo refrattari a norme esteriori, come quelli delle relazioni affettive tra le persone: famiglia, convivenza, rapporto genitori e figli. La trasformazione del web e dei social media in manifestazione dell’esistenza e in collezioni di dati, lo sviluppo scientifico di strumenti di manipolazione della natura e dell’esistenza (che intervengono, per esempio, nell’ambito della procreazione, della lotta alle malattie, della morte) aprono sterminati campi minati all’intervento legislativo.
Se dunque il diritto è componente sociale primaria e fondamentale, se il diritto è al giorno d’oggi elemento imprescindibile di regolazione, se qualsiasi discussione pubblica è sostanzialmente una discussione di diritto, allora il cittadino ha il dovere di informarsi in materia e di avere nel proprio bagaglio culturale la materia. Conoscere il diritto, riconoscerne il valore fondativo per la propria società – perché alle regole si obbedisce, ma ai principi, che sono ponte tra diritto, cultura e società, si aderisce – era uno strumento cardine dell’antica Roma e della sua logica di integrazione sociale: i cittadini romani, infatti, imparavano a leggere e scrivere a partire dallo studio mnemonico delle prime leggi scritte della città, le XII tavole. Ancora oggi ogni persona deve essere posta in condizione di valutare e prevedere, in base alle norme generali dell’ordinamento, le conseguenze giuridiche della propria condotta: il principio della certezza del diritto costituisce un valore al quale lo Stato deve tendere per garantire la libertà dell’individuo, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, la legalità di azioni individuali e collettive. Un valore non semplice da perseguire alla luce della complessità e sovrapposizione attuale di sistemi giuridici che spesso travalicano i confini nazionali: il cittadino italiano è cittadino europeo che risponde e si confronta con le leggi dell’Unione europea, ma è anche cittadino del mondo, anzi, di un mondo sempre più regolamentato da Convenzioni internazionali.
Questo obiettivo, di interesse individuale, collettivo e sistemico, può essere raggiunto solo se si realizza un serio investimento in cultura giuridica e se si riesce a creare, nella nostra collettività, un significativo incremento di consapevolezza dell’importanza del diritto.
Emanciparsi dal manzoniano dottor Azzeccagarbugli significa formare una società consapevole e tendenzialmente sicura e concorde davanti alle regole, e di conseguenza armonica. Diffondere la conoscenza delle leggi significa dunque sviluppare una cultura non oppositiva, ma compositiva, integrativa e integrata. Vuol dire in fin dei conti una cosa molto semplice: imparare a giocare. E come tutti sanno, si impara a giocare e si diventa abili da piccoli.
La scuola italiana nella trasmissione del diritto
Assegnato alla VII Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali) in sede redigente e annunciato nella seduta n. 235 del 25 giugno 2020, il disegno di legge su “Disposizioni per la promozione dello studio del diritto nei licei” (prima firmataria Daniela Donno) si pone l’obiettivo di dare facoltà alle istituzioni scolastiche di reintrodurre lo studio del diritto nei licei in chiave umanistica. Con l’articolo 2, comma 1, si stabilisce che le istituzioni scolastiche d’indirizzo liceale presenti sul territorio nazionale, siano esse classiche, scientifiche, artistiche, musicali, linguistiche in cui non sia già presente l’insegnamento del diritto, hanno facoltà di introdurre nel proprio curriculum un’ora settimanale finalizzata alla conoscenza e allo studio interdisciplinare del diritto, svolto da due docenti di materie diverse, compresenti in classe nella stessa ora. L’incarico verrebbe affidato ai docenti dell’area giuridico-economica (classe di concorso A-46). L’offerta formativa verrebbe introdotta sulla base di un progetto-obiettivo specifico di apprendimento, proposto, approvato e deliberato dal collegio dei docenti, mentre i consigli di classe delle classi interessate, d’intesa con il collegio dei docenti, proporrebbero e definirebbero i contenuti e gli obiettivi didattico-disciplinari dei rispettivi progetti-obiettivo, definendone gli ambiti disciplinari nonché i docenti individuati. L’articolo 3 concerne i docenti titolari dell’insegnamento di diritto, prevedendo che le istituzioni scolastiche attingano, possibilmente e in via prioritaria, dall’organico del potenziamento, l’organico cioè introdotto con legge 107/2015. Questa consente di mettere a disposizione delle scuole insegnanti non utilizzati per l’ordinario funzionamento delle classi, bensì personale da impegnare per rispondere ad esigenze di flessibilità organizzativa (integrazione “in verticale” tra gradi scolastici, aumento del tempo scuola, attività opzionali, apertura pomeridiana, ampliamento offerta formativa), didattica (organizzazione modulare di tempi e gruppi, quote di autonomia, classi aperte, didattica laboratoriale, didattiche innovative, didattica per competenze), e di miglioramento dell’apprendimento ( tramite figure incaricate di personalizzare i curricula, di essere animatori digitali, tutor per la formazione, supporti alternanza).
Fin qua, un paio di dubbi sorgono nella mente dei non addetti ai lavori: in primis, non si rischia di rendere discrezionale e poco uniforme l’insegnamento del diritto e quindi di dotare i giovani di strumenti di cittadinanza differenti? L’introduzione del diritto nei curricula resta facoltativa, e oltretutto confinata all’elaborazione di un progetto formativo sul quale insistono collegio insegnanti e consiglio di classe, anche per ciò che attiene la scelta dei docenti (perché poi due?) preposti all’insegnamento. Magari potremmo trovarci di fronte al liceo più illuminista d’Italia, con docenti e insegnati consapevoli dell’importanza del diritto per la formazione, la realizzazione e la vita dei loro allievi e figli. Un liceo che pullula di docenti preparati e addirittura laureati in diritto, con un’offerta formativa capace di accogliere e integrare l’insegnamento extra come un insegnamento ordinario. Oppure potremmo essere meno fortunati, e capitare in un liceo con importanti difficoltà organizzative, poco organico, genitori restrittivi e scarsa visione di lungo periodo. Mi pare rischioso affidare tanta responsabilità circa la formazione civica e giuridica delle nuove generazioni sulle spalle dei professori e genitori di turno. Ulteriore limite al contenuto del disegno di legge attiene alla predeterminazione delle classi da adibire al potenziamento nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF). Spetta infatti a tale atto di prevedere, con il dovuto anticipo rispetto all’inizio dell’anno scolastico, le classi da adibire al potenziamento. Al dirigente scolastico non è consentito assegnare un docente al potenziamento ove la classe di insegnamento in cui è titolare non sia stata inserita tra quelle destinate al potenziamento medesimo. Non è neanche consentito modificare il PTOF in data successiva all’inserimento del docente, in modo da giustificare ex post il trasferimento su un posto del potenziamento. Una rigidità burocratica, tipica della scuola italiana e delle sue esigenze di uniformità formale, che mal si concilia con le potenzialità sostanziali e la flessibilità conferite dal disegno di legge all’insegnamento del Diritto. Una flessibilità ribadita anche dalla scelta del tipo di organico da impiegare, quello del potenziamento, per definizione rispondente a una concezione più smart e “liquida” dell’insegnamento. E, altro problema: sebbene il potenziamento sia stato concepito come uno strumento di integrazione delle conoscenze acquisite dagli alunni durante lo svolgimento delle lezioni, esso si è tradotto, a volte, nel concreto impiego dei docenti del potenziamento per riempire le ore dei colleghi assenti o/e per attività poco qualificanti dal punto di vista professionale, lontane dagli obiettivi del potenziamento. Considerato che tale declinazione della figura professionale del potenziamento è stata non approvata dal Miur e dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro 2016/8, il disegno di legge in materia di introduzione del Diritto nei curricula scolastici superiori servirà a riqualificare concretamente il ruolo di tale docenza o si inserirà su un terreno scivoloso in partenza?
Nonostante queste evidenti problematiche, il disegno di legge cerca di porre fine al silenzio calato sull’insegnamento del Diritto nei licei per effetto della riforma Gelmini, a partire dall’anno scolastico 2010-2011. Il dato più evidente che emerge dalla lettura dei curricula dei percorsi di studio di quell’anno è la totale sparizione del Diritto e dell’economia dai licei e un suo forte ridimensionamento negli istituti tecnici e professionali, sui quali ridotto è l’investimento in termini di profitto scolastico. La conoscenza delle strutture dello stato, degli organi costituzionali, delle fonti del diritto, del significato del contratto o del prodotto interno lordo, dell’impatto del debito pubblico perde all’improvviso, nel 2010, rilevanza.
L’insegnamento di tali materie era stato introdotto negli ordinamenti dei licei, con l’eccezione del Liceo Classico e Scientifico (dove però alcune sperimentazioni le avevano previste), dalla precedente Riforma Brocca dei primi anni Novanta. Lo studio del Diritto e dell’economia, nel biennio della scuola superiore, aveva un compito di natura civica, cioè la finalità di formare il cittadino, vale a dire un adulto in grado di interpretare la realtà sociale in cui vive e di parteciparvi in modo consapevole e positivo. Un obiettivo coerente con la successiva Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo del 18 dicembre 2006. Il documento, infatti, nell’indicare l’obiettivo nazionale ed europeo dell’apprendimento permanente, delineava otto competenze chiave; tra queste, la numero 6 prevede le “Competenze sociali e civiche”, le quali “includono competenze personali, interpersonali e interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate, come anche a risolvere i conflitti ove ciò sia necessario. La competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture sociopolitici e all’impegno a una partecipazione attiva e democratica”. Ancora: “La competenza civica si basa sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili, anche nella forma in cui essi sono formulati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nelle dichiarazioni internazionali e nella forma in cui sono applicati da diverse istituzioni a livello locale, regionale, nazionale, europeo e internazionale.” Ulteriore competenza chiave definita nel documento del Parlamento e del Consiglio Europeo è la numero 7: “Senso di iniziativa e di imprenditorialità” inteso come “capacità di una persona di tradurre le idee in azione”. Si precisa che questa competenza “aiuta gli individui, non solo nella loro vita quotidiana, nella sfera domestica e nella società, ma anche nel posto di lavoro ad avere consapevolezza del contesto in cui operano e a poter cogliere le opportunità che si offrono ed è un punto di partenza per le abilità e le conoscenze più specifiche di cui hanno bisogno coloro che avviano o contribuiscono ad una attività sociale o commerciale”. Il senso di iniziativa conferisce “l’abilità di identificare le opportunità disponibili per attività personali, professionali, e/o economiche, comprese questioni più ampie che fanno da contesto al mondo in cui le persone vivono e lavorano, come ad esempio una conoscenza generale del funzionamento dell’economia, delle opportunità e sfide che si trovano ad affrontare i datori di lavoro o un’organizzazione”. Come si possono raggiungere tali obiettivi senza fornire agli studenti liceali alcuna conoscenza di carattere giuridico ed economico? Il Decreto del Ministro della Pubblica Istruzione del 22.8.2007, contenente il “Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione”, rispondeva in maniera coerente alla domanda appena posta e agli obiettivi europei: “La raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo 18.12.2006 sollecita gli Stati Membri a potenziare nei giovani lo spirito di intraprendenza e di imprenditorialità. Di conseguenza, per promuovere la progettualità individuale e valorizzare le attitudini per le scelte da compiere per la vita adulta, risulta importante fornire gli strumenti per la conoscenza del tessuto sociale ed economico del territorio, delle regole del mercato del lavoro, delle possibilità di mobilità”. Occorreva quindi ”collocare l’esperienza personale in un sistema di regole fondato sul reciproco riconoscimento dei diritti garantiti dalla Costituzione, a tutela della persona, della collettività e dell’ambiente.
Mezzo gaudio
In questi anni, la compensazione per la perdita del Diritto al Liceo è consistita nell’introduzione della materia “Cittadinanza e Costituzione”. Dai decreti ministeriali dell’allora Ministra Gelmini si evince che l’insegnamento della disciplina deve essere svolto nell’ambito delle ore di lezione assegnate a Storia: a spiegare il testo costituzionale nella sua valenza storica, sociale e giuridica non saranno i docenti competenti nella materia giuridica, bensì i docenti abilitati all’insegnamento della Lingua e Letteratura Italiana, della Storia e della Filosofia. Sarebbe forse stato facile prevedere che l’insegnamento della nuova materia, affidato a docenti privi di conoscenze e competenze specifiche in ambito giuridico, avrebbe sortito gli stessi effetti dell’Educazione Civica, la cui trattazione era prevista precedentemente negli ordinamenti della scuola secondaria di primo grado nell’orario sempre della materia di Storia. L’Educazione Civica, ha avuto, infatti, scarsa incidenza formativa: molti docenti non la trattavano e alcuni solo occasionalmente e malvolentieri. La legge 92 del 2019, in vigore in teoria dal 2020, ha stabilito nel primo e nel secondo ciclo di istruzione, in tema di Educazione Civica, l’autonomia delle scuole e la trasversalità dell’insegnamento. Le conseguenze, facili da intuire, riguardano ancora una volta: la differenziazione di approcci e contenuti tra i vari istituti, il ruolo residuale conferito alla materia tramite sole 33 ore annue da spalmare in maniera discrezionale una volta a settimana, l’inesistenza di una specifica classe di concorso, di un collegamento rispetto alla tipologia di laurea e di abilitazione ministeriale per il docente di Educazione Civica, l’invarianza finanziaria e il conseguente basso investimento su tale insegnamento.
L’Indagine AlmaDiploma 2019 sul Profilo dei Diplomati dedica particolare attenzione all’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”. Nonostante gli argomenti, obbligatori per tutti i percorsi di studio, vengano veicolati durante l’orario scolastico all’interno delle materie di studio ordinarie, il 5,5% dei diplomati dichiara di non averne affrontato nessuno, quota che raggiunge il 7,9% tra i diplomati liceali. I diplomati che hanno concluso un percorso liceale dichiarano di aver affrontato ciascuno dei sei argomenti di Cittadinanza e Costituzione molto meno frequentemente rispetto ai colleghi degli altri indirizzi. Gli argomenti più trattati riguardano la Costituzione italiana (affrontata dall’86,7% dei diplomati), il tema dei Diritti umani (83,7%) e dell’Educazione alla legalità (77,9%). Meno diffusi, ma comunque trattati, sono gli insegnamenti riguardanti l’Educazione ambientale (74,6%), la Cittadinanza europea (74,1%) e il Dialogo interculturale (69,9 %). Gli argomenti ritenuti più utili dai diplomati sono i Diritti umani (82,9%) e l’Educazione alla legalità (78,3%), mentre, al contrario, la Cittadinanza europea si ferma al 67,9% di gradimento. L’utilità percepita dai diplomati per ciascun argomento è maggiore tra i professionali e i tecnici rispetto ai liceali, con differenziali di gradimento che arrivano fino a 12 punti percentuali.
Questi dati mi hanno molto incuriosita. Innanzitutto, mi chiedo sempre quanto poco debba essere stato pregnante un insegnamento per non essere nemmeno vagamente presente, magari solo con un titolo, nella mente giovane di uno studente delle superiori. In secondo luogo, com’è possibile che un liceo trovi meno tempo da dedicare a materie così importanti e umanistiche rispetto a un istituto diverso? Evidentemente i programmi sono troppo pressanti e opprimenti per lasciare spazio a una formazione “deviante”. O i professori sono “inadeguati”, dal punto di vista universitario, per preparare con profitto una lezione di Diritto. Specialmente quando si devono trattare argomenti che riguardano la dimensione internazionale del Diritto: mi riferisco ad Ambiente, Unione Europea, Multiculturalismo. In più, da ex studentessa del liceo classico a Reggio Emilia, iscritta in una sezione la cui offerta formativa prevedeva circa 30 ore l’anno di Diritto al Ginnasio, posso testimoniare che l’ora di Diritto rappresentava l’ora d’aria rispetto all’insegnamento pesante di Storia, in quanto molto più leggero e meno ansiogeno della materia ordinaria. E che la concentrazione di uno studente del classico non era rivolta all’acquisizione di sapere ma alla performance finale. Banalmente, il voto e la media, se non la sopravvivenza all’anno scolastico. Da qui si può evincere l’estremo interesse per una materia extra insegnata “en passant”. Secondo una ricerca condotta dall’Associazione professionale insegnanti scienze giuridiche ed economiche (APIDGE), «[…] il 66 per cento dei nostri studenti non è messo nelle condizioni di sapere di diritto e di economia politica: un dato che coincide quasi perfettamente con le autovalutazioni degli studenti di analfabetismo giuridico, evidenziate nei Rapporti annuali di Almadiploma». Basti pensare ai grandi temi sociali (lavoro e crisi occupazionale) e alle emergenze che attualmente preoccupano il nostro vivere quotidiano (fenomeno migratorio, femminicidi, macro e microcriminalità, corruzione) per osservare, secondo l’APIDGE, che senza una cultura giuridica minima, qualsiasi fatto può essere distorto, mal interpretato, giudicato sommariamente, attraverso un susseguirsi “ignorante” di post e commenti sui social networks.
E fuori dall’Italia?
Sarebbe interessante svolgere uno studio comparato riguardante l’insegnamento del Diritto nelle scuole secondarie in giro per il mondo. Tuttavia, il materiale informativo accessibile a noi comuni mortali è scarso e il tempo per affrontare in maniera approfondita la questione non è dalla nostra parte. Ci limitiamo in questa sede a riportare alcuni esempi e alcuni dati.
Nei licei francesi, il Diritto è insegnato sia come materia opzionale del Bac generale (un tipo di percorso superiore) sia come materia obbligatoria, dall’approccio più pragmatico, nell’ambito del Bac tecnologico di sciences et technologies du management et de la gestion (STMG).
Quando è materia opzionale, il Diritto occupa nei programmi scolastici tre ore settimanali, al fine di far comprendere agli studenti il modo in cui esso contribuisce a strutturare e a influenzare i grandi obiettivi politici, economici e sociali della società contemporanea. Il programma si articola intorno a un interrogativo introduttivo: “Qu’est-ce que le droit ?”, che cos’è il diritto?. Una domanda interessante, la quale consente di analizzare la funzione storica, sociale e politica delle leggi e degli ordinamenti. Il primo modulo affrontato nelle scuole francesi tocca il tema delle relazioni internazionali, in particolar modo il quadro giuridico dell’Unione europea, e dell’internazionalizzazione del Diritto, con focus su Nazioni Unite e Consiglio d’Europa. Una scelta formativa nettamente più attenta, di quella italiana, alla trasmissione di conoscenze necessarie per la comprensione del mondo globalizzato e istituzionalizzato. La seconda parte del programma ha carattere concreto: attraverso l’analisi dei casi, si coglie l’importanza del diritto per la regolazione della vita personale, sociale ed economica, del progresso scientifico e tecnologico.
Quando è obbligatorio, il Diritto è completamento imprescindibile della formazione economica, organizzativa e gestionale dell’indiritto liceale. Il suo obiettivo esplicito: formare cittadini coscienti delle regole e dei meccanismi giuridici che reggono il funzionamento della società, i rapporti interpersonali, gli obiettivi economici, sociali e ambientali legati a crescita e sviluppo. Attenzione è posta anche sulle recenti evoluzioni del Diritto: pensiamo al tema della regolamentazione della protezione dei dati personali, all’imperativo della transizione energetica, all’importanza dei beni pubblici a livello nazionale e internazionale, all’economia sociale e solidale. Durante il primo anno di Bac STMG, il Diritto copre 4 ore settimanali, al quarto anno ben 6 ore. Una quantità di ore di lezione decisamente rilevante.
In Gran Bretagna, i dipartimenti universitari di legge, che corrispondono al nostro ciclo triennale, non gradiscono l’anticipazione formativa che alcune scuole superiori, a propria discrezione e sulla base della disponibilità di personale docente qualificato e laureato in materia, scelgono di impartire sul Diritto. L’accusa riguarderebbe la semplificazione eccessiva della materia e la non trasmissione del vero metodo legale nell’approccio ai problemi. Leggendo qualche interessante forum di confronto tra genitori e insegnanti inglesi emerge come la materia giuridica sia considerata alquanto, se non troppo, complicata e intricata, per essere veramente colta e assimilata da una giovanissima mente. Ma mi chiedo: non sono proprio le menti più incolte e fresche le più fertili e predisposte all’apprendimento?
Qualche riflessione
Senza la presunzione di fornire verità od oro colato, alla luce di ciò che abbiamo fin qui evidenziato o colto, proverei a presentarvi qualche considerazione.
- Un concetto molto semplice: la trasmissione di una materia avviene da persona formata a persona da formare. Se la persona incaricata di trasmettere non è formata, perché legittimamente potrebbe essere un insegnante laureato in Lettere, non ritengo sia una buona idea affidare a questa persona l’insegnamento della materia giuridica. Diritto è una materia molto specifica, in Italia richiede cinque anni consecutivi per essere padroneggiata, specialmente nel linguaggio e nell’approccio. Perché snaturarla o distorcerla? Perché un povero e colto umanista dovrebbe esserne titolare? Stiamo dando responsabilità sociale, perché il Diritto e la sua conoscenza permeano e modellano la società, a una persona sbagliata. E la stiamo togliendo a quelle persone, le quali, davvero formate in Diritto per scelta, altrettanto per scelta vorrebbero insegnarlo. O potrebbero pensare di farlo, senza svalutare per forza la propria formazione universitaria rinunciando ad apprendistato, avvocatura o addirittura magistratura. Abbiamo troppi laureati in Giurisprudenza? Valorizziamoli.
- Per valorizzare una figura professionale occorre però riconoscerla e riconoscerne il sapere. Siamo in un mondo in cui tutti possono fare tendenzialmente tutto. E la causa sta nel fatto che riteniamo alcuni saperi superati (quelli umanistici per esempio) e non assorbibili sul mercato del lavoro. Perché riciclare questi saperi nel mondo dell’insegnamento? L’insegnamento è una professione, lo vogliamo capire? Non è un’alternativa alla disoccupazione. E come tale ha bisogno di un proprio percorso. Di laurea e di specializzazione. Ma ha anche bisogno di un percorso di carriera chiaro. A certi titoli devono corrispondere chiaramente certe, vogliamo chiamarle così, cattedre. E basta con insegnamenti di serie A e insegnamenti di serie B. Non è imparando i canti di Dante a memoria che si formano cervelli capaci di saper vivere. Dante, e mi perdonino le persone che riceveranno un colpo al cuore nel leggere tali righe, ha la stessa importanza formativa e culturale di Platone, delle equazioni, delle leggi fisiche, dei modelli di Mundell-Fleming, dei contratti e delle obbligazioni, della Convenzione contro il Genocidio del 1948, ma, esageriamo, anche di un buon corso di Educazione Fisica, in cui venga trasmesso il valore della salute e dello sviluppo delle potenzialità e delle abilità del proprio corpo, o di un corso di Cinema e di un laboratorio di Cucina, in cui l’Italianità trovi la sua massima espressione.
- Perché allora (e mi rivolgo al Ministero dell’Istruzione) essere maniacali sull’adempimento e completamento di alcuni programmi scolastici e lasciare completa discrezione a istituti, docenti e genitori circa l’insegnamento del Diritto? Mi sono persa qualcosa: non è oggettivo il Diritto? Quale vogliamo sia lo scopo di tale insegnamento? Dare una spolverata di nozioni vuote o dare un significato al reale? Perché diversificare l’offerta e di conseguenza la performance? Vogliamo mandare i giovani all’università con gli stessi mezzi? Vogliamo renderli capaci di affrontare dalla stessa linea di partenza i test preselettivi, le materie universitarie e in un futuro i concorsi? Sì, perché per la maggior parte dei concorsi pubblici, anche nei casi di assunzione di personale non specializzato nel settore giuridico, sono richiesti: Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Costituzionale, Diritto dell’Unione Europea, Diritto Internazionale Privato, Diritto Internazionale Pubblico. Per Bacco, nessuno vuole funzionari ignoranti e incapaci di masticare diritto e di applicarlo nel proprio lavoro. Ma la pappetta imparata a memoria per entrare in una graduatoria pubblica non ha lo stesso valore di un sapere assimilato. In più, le classi di laurea che hanno accesso alle selezioni pubbliche sono “infinite”. Un esempio a me “caro”: per la carriera diplomatica, possono accedervi laureati magistrali di varie facoltà, non solo di Relazioni Internazionali come la sottoscritta. Posso assicurarvi però che essere usciti da Giurisprudenza conferisce un vantaggio immane concorsuale. Io ho studiato all’Università Diritto dell’Unione Europea, Diritto Costituzionale Comparato, Diritto Internazionale (solo pubblico). Però è richiesto e assodato che debba magicamente e da sola padroneggiare tutti gli altri. Fair enough?
- Non manca, in maniera evidente, una visione di lungo periodo sul tipo di cittadini e di società che vogliamo? La formazione non dovrebbe rispondere a una visione, come una Costituzione corrisponde ed esprime dei principi? Una società ordinata, armonica, costruttiva risponde a semplici criteri: ordine organizzativo e programmatico, mancanza e/o ricomposizione di storture e conflitti, perseguimento di interessi collettivi che innalzino il benessere collettivo. Ignoranza, superficialità cognitiva, disorganizzazione conducono ad esiti subottimali e non efficienti. Esiti mediocri o negativi e aspettative di benessere ed efficienza disattese abbassano in maniera inevitabile e drammatica la fiducia che il cittadino ripone nei confronti delle istituzioni, cioè quelle componenti della società le quali lavorano per il suo funzionamento e di conseguenza formano quelle leggi e quelle regole che permettono di interagire in un gioco a somma positiva. Non mi stupisco dunque che il senso civico in Italia non sia sviluppato, che il valore delle regole non venga percepito, che l’esistenza di un ordinamento europeo e internazionale, in cui l’Italia è calata per diritti e doveri, sia percepito come un laccio, non come un contesto e un’opportunità costruttivi.
Non ho una risposta né soluzioni a tutte le provocazioni sollevate. Mi auguro soltanto che le domande poste non caschino nel dimenticatoio e possano trovare terreno fertile in altre persone le quali, come la sottoscritta, si interrogano e riflettono umilmente e quotidianamente su come il proprio mondo possa funzionare e diventare migliore.
Fonti
Gustavo Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Einaudi (2009).
https://www.letture.org/a-che-cosa-serve-il-diritto-vincenzo-di-cataldo
https://www.anief.org/stampa/anief-informa/26691-attivita-di-potenziamento-vediamo-i-dettagli
http://win.gildavenezia.it/riforma/riformadoc/2009/torna_analfabetismo.htm
http://www.almadiploma.it/info/pdf/convegno_firenze_2020/04_Volume_completo.pdf
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