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Non si chiedono riforme

Si è parlato di tutto, in questa campagna elettorale, tranne che di università. Non durante i comizi dove si promettevano più soldi e meno tasse, non durante i talk show dove si smorzavano i toni di fronte ad esperti con conti alla mano. E nel caos post voto, tutti presi a contare i numeri per formare maggioranze forzate, ad indovinare chi siederà in ufficio a Palazzo Chigi e chi alla Farnesina o al Viminale, nessuno sembra particolarmente interessato a sapere chi prenderà le redini del MIUR. Qualcuno dice che ha vinto la destra, qualcuno il M5S, eppure io, che ho anche provato a stare attento durante una campagna elettorale a tratti povera, a tratti grottesca, io – dicevo – non ho idea di cosa abbia in mente l’uno e l’altro schieramento a tema università. Come se tra le misure per far ripartire il mondo del lavoro (tra flat tax e reddito di cittadinanza), il modo in cui il sistema prepara i medici, gli ingegneri e i manager non avesse importanza.

Intanto emergono dati poco clementi da ISTAT, OCSE, Commissione Europea e via dicendo, che ci dicono (come se già non lo sapessimo) che non siamo la punta di diamante per l’università in Europa. Siamo il paese in cui nell’arco di due mesi un’università scala vertiginosamente i ranking internazionali ma non può, secondo un tribunale, aprire lauree solo in inglese. Allora io non chiedo riforme, che finiscono per stravolgere, accorpare, centralizzare e poi non cambia nulla. Mi basterebbe capire se “quelli che hanno vinto” vogliono un’università più o meno selettiva, più o meno internazionale, più o meno indipendente, più o meno finanziata. Non si chiedono riforme – ma idee, quelle sì.

– L’Intervallo di Alessandro Storchi

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