La storia è triste e fin troppo comune: un padre disperato per aver perso una figlia “sodomita”. Una storia che, come tutte quelle simili, è storia di dolore e violenza psicologica, che impregnano le mura domestiche fino a spezzare le famiglie. C’è un aspetto però che deve far riflettere noi, che ci occupiamo di istruzione. Il padre in questione affida il suo dolore ad una lettera indirizzata ad un sito internet non propriamente progressista, e accusa l’Università di Udine, frequentata dalla figlia, di essere colpevole di averla convertita invitandola ad un incontro sui diritti LGBT+. Il sito internet coglie l’assist e indicizza le università italiane che a suo dire favoriscono questi comportamenti sodomiti: oltre a Udine, già citata, anche Verona e Trento. Atenei rei di avere centri di ricerca sugli studi di genere e orientamento sessuale, e di favorire il dialogo su questi temi.
Un’accusa del genere ci deve ricordare un tema fondamentale: che l’Università è chiamata ad osare, ad azzardarsi là dove l’opinione pubblica, volgare, non si spinge. È chiamata ad esplorare i territori di frontiera, nella scienza come nell’etica e nella teoria dell’identità. Con atteggiamento umano e scientifico, senza faziosità ma senza censure. C’è un dettaglio che mi ha sempre fatto impazzire: il più alto titolo accademico, da noi “Dottorato di Ricerca”, è chiamato internazionalmente Philisophiae Doctor (PhD), a prescindere dalla disciplina per cui viene assegnato. Questo perchè tutta l’Università deve inseguire (filo-) la luce (phōs, da cui –sophia) al di là dei confini dogmatici dell’opinione (doxa). E ricordarci dantescamente che “fatti non fummo a viver come bruti”.
– L’Intervallo di Alessandro Storchi
Immagine di copertina: Les femmes d’Algiers di Pablo Picasso (1955)