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Interdisciplinarità in pratica: cosa, come e perché

L’interdisciplinarità, parola jolly – come il pettegolezzo – è sulla bocca di tutti, ma cosa vuol dire in pratica? Nel mondo della scuola intesa sia come istruzione che ricerca si sente dire che l’interdisciplinarità è il futuro. Solo raramente però si sente qualcuno proporre soluzioni per tradurla in pratiche. Prima di tutto va detto che è un termine ombrello: raccoglie un universo di declinazioni possibili e possibili contesti di applicazione. Con esso si intende indicare qualcosa di diverso sia dal classico approccio mono-disciplinare – per intendersi quello che si incarna suono della campanella che separa e distingue l’ora di fisica dall’ora di latino– sia dall’approccio multidisciplinare, in cui le diverse forme di sapere sono sì mescolate, ma solo esteriormente, cioè solo attraverso l’accostamento che non crea relazione. Sicché a fine giornata ogni disciplina rimane intaccata dal confronto con l’alterità di altre forme di sapere.

Un confronto con un trittico concettuale affine può aiutare: si distingue infatti tra culturalità, multiculturalità e interculturalità. Una città multiculturale è una città in cui ci sono quartieri come Little Italy e China Town. Certo la differenza non manca, è però una differenza incasellata e trattenuta da limiti fisici e mentali. Nella città interculturale separazioni di questo tipo cadono, lasciando spazio all’emergere delle differenze attraverso il dialogo.

Un esempio di interdisciplinarità mancata ( ricavato da Efstathiou, Mirmalek in Cartwright, Montuschi 2014) ci  mostra come sia radicalmente differente il rapporto ad un problema se visto da due discipline diverse e come la comunicazione possa essere chiave di volta fondamentale per una comprensione olistica del problema in direzione della sua soluzione. Il problema citato dagli autori è la disparità di salute su base razziale negli Stati Uniti – ossia il fatto che statisticamente le minoranze etniche hanno più problemi di salute rispetto alla controparte caucasica. Le due discipline coinvolte sono la sociologia e la genetica. Per i primi il problema è da ricercare nelle disparità socioeconomiche, per i secondi il problema potrebbe essere nei geni. Insomma due modi di impostare la questione, due visioni del problema parallele. I sociologi pensano che la soluzione sia nel superamento del razzismo istituzionale e in una maggior mobilità sociale, per i genetisti in una differenziazione e specializzazione nelle cure che tenga conto dei diversi background genetici. L’approccio interdisciplinare vorrebbe invece che i genetisti vivessero almeno un po’ nel mondo del sociologi, spingendoli a chiedersi quali siano le cause sociali, storiche ed economiche del determinato sviluppo della ricerca medica. Similmente – ma all’inverso – dovrebbero fare i sociologi. Ciò è fondamentale perché quando ci si muove dalla teoria alla pratica per mettere in atto un cambiamento, una soluzione parziale – filosoficamente si direbbe astratta – porta al disastro.

L’interdisciplinarità indica un processo in cui la messa in discussione dei confini disciplinari avviene – per così dire – come sovrapposizione, intreccio e mix. Nuovi corsi di studio permettono di integrare diverse discipline con l’obiettivo di impostare punti di vista inediti, dai quali seguono domande impensate e risposte inaspettate. La chiamata all’interdisciplinarità è la chiamata all’intensificarsi e complessificarsi delle relazioni tra discipline. Solo così si può sperare di colmare il sempre più ampio e drammatico scarto tra teoria e prassi.

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