Università e lavoro, pt.1 “A cinquant’anni dal Sessantotto”

Di Emanuele Lepore

Nel 2018 cade un anniversario piuttosto importante, soprattutto per la storia italiana: sono trascorsi cinquant’anni dal 1968, anno simbolico sotto la cui insegna siamo soliti raccogliere una serie eterogenea di fenomeni politici, sociali e culturali. Numerose pubblicazioni insistono sull’idea di una qualche eredità del ’68 con cui occorre fare i conti. Può essere di una qualche utilità provare a dire qualcosa su una delle questioni strutturali di un movimento che si è espresso con specificità culturali e geografiche che fanno scricchiolare l’idea di un ’68 unitario e univoco. Pensiamo alla questione universitaria, alla postura che in quel giro d’anni gli studenti hanno adottato nei confronti della società, che si è tradotta, per esempio, nel tentativo di interpretare le esigenze della classe operaia, attraverso un’interlocuzione non priva di reciproche incomprensioni. Il tono di quest’articolo non richiede che ci si soffermi in un’analisi puntuale del rapporto tra movimento universitario e classe operaia, che ha conosciuto fasi diverse. Vorremmo piuttosto lasciarci interrogare da questo fenomeno e provare a leggere il rapporto che, oggi, intercorre tra università e società civile, mediato inevitabilmente dalle questioni riguardanti il lavoro.

Ogni relazione che non sia univoca (che, dunque, sia autenticamente relazione) allestisce una circolarità tra i termini che in essa s’incontrano e finiscono per trasformarsi reciprocamente, l’uno facendo proprio qualcosa dell’altro e viceversa. Tale dinamica opera nelle Tesi della Sapienza, pubblicate durante l’occupazione del Palazzo della Sapienza (Università di Pisa) nel 1967 e considerate uno dei punti d’avvio delle rivendicazioni studentesche. Si pensi, in particolare, alla tesi secondo cui gli studenti, essendo i veri proprietari dell’Università ed essendo lavoratori a tutti gli effetti, avrebbero dovuto ricevere un salario.

A cinquant’anni dal 1968, dalle discussioni sui salari agli studenti e sulla socializzazione dell’università, lo scambio – pur problematico – tra università e mondo del lavoro appare radicalmente diverso: è il mondo del lavoro che, sulla scorta delle proprie esigenze e delle proprie aspettative, trasforma quelle di un’università che non è più chiamata a dettare gli standard produttivi e, anche attraverso la formazione di forza lavoro altamente qualificata, a tentare il progressivo guadagno di una democrazia liberale al meglio delle sue possibilità. Non stiamo qui dicendo che, a priori, il mercato del lavoro non possa far progredire la nostra società e l’assetto politico del nostro paese; né ci stiamo impegnando in una puntuale analisi marxiana della circolarità per cui il mercato riesca, in questo frangente, a porre il proprio presupposto.

Vogliamo soltanto far rilevare, e lasciare ai lettori il tempo di elaborare le proprie analisi, che l’ordine di potere tra l’università e il mercato del lavoro provoca una certa estraneità tra l’università e la società civile: se la prima è incapace di elaborare autonomamente i propri standard e di attuare una programmazione didattica altrettanto autonoma, la società perde progressivamente fiducia in un sistema universitario che è, sempre di più, percepito come una cruna attraverso la quale è necessario passare (il prima possibile, col migliore dei risultati possibili) per poter accedere ai posti di lavoro più ambiti – ma, a ben vedere, anche a quelli a cui ci si rivolge, solitamente, in maniera meno entusiasta.

D’altro canto, va detto che l’università si è spesso trincerata dietro una teoria di cui non è stata in grado di mostrare l’utilità sociale e, in certa misura, ha favorito il regime di estraneità che, ad oggi, ne separa profondamente lo spirito dal tessuto vivo di una società che ha un vitale bisogno di evolversi.

Immagine di copertina: Salomone e la regina di Saba, Tintoretto (1530ca-1594 ante).

 

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