Di Emanuele Lepore
Nella prima parte di questo articolo ho sostenuto che l’elemento caratteristico delle diverse forme di populismo a cui oggi assistiamo è il paternalismo: l’atteggiamento di chi sa ciò di cui le persone hanno bisogno, quando e come ne hanno bisogno, meglio delle persone stesse. Una cartografia più analitica delle varie forme assunte da questo fenomeno è necessaria, poiché la complessità non tollera di essere trattenuta da una sola definizione. Si tratta quindi di una definizione euristica, utile per mettere in luce alcuni tratti di un oggetto che resta, per certi versi, ancora nell’ombra.
In questa seconda parte, vorrei avanzare una tesi molto semplice e, se si vuole, ovvia: la sola via per confrontarsi con il populismo è l’educazione. Per quanto ovvio, il peso specifico dell’educazione va oggi focalizzato con maggiore puntualità, affinché non si rischi di perdere delle storiche opportunità di crescita e sviluppo.
Se si guarda alla media delle opinioni quotidianamente condivise sui social network, pare che l’alternativa sia tra un’altezzosa indifferenza nei confronti delle forze politiche populiste (e dei loro sostenitori) e il proverbiale “pan per focaccia”: o li si snobba o si risponde loro con lo stesso linguaggio, con la stessa grammatica. Se questa fosse davvero la sola alternativa possibile, potremmo ragionevolmente salutare le nostre disperate aspirazioni democratiche: ignorandoli si finisce per accettare il loro modo di intendere e praticare la politica; rispondere loro adottando il medesimo loro approccio è come pensare di spegnere un incendio svuotando sulle fiamme taniche di benzina (non esattamente un’idea arguta).
Occorre avere il coraggio di praticare la terza via, la sola sensata: l’educazione. Abbiamo bisogno di un progetto di educazione politica a lungo termine, che coinvolga direttamente le studentesse e gli studenti che entrano nelle dinamiche del discorso pubblico senza preparazione alcuna. L’ingresso a gamba tesa, reso possibile dalla facilità con cui si accede ai social network, rischia di trasformarsi in un fallo doloroso per mittenti e destinatari di messaggi spesso ingenui. L’educazione all’usso dei social network, che deve vedere impegnate in prima linea le nostre scuole, senza escludere l’impegno di altre realtà sociali, non può non incrociare l’educazione civica.
Se è evidente che non basta ritagliare mezz’ore dagli altri insegnamenti e necessitiamo di un progetto multidisciplinare che coinvolga studentesse e studenti a più livelli, è altrettanto evidente che non possiamo attendere una prossima riforma del sistema scolastico. Ciascun cittadino ha il dovere di confrontarsi con questa necessità, partecipando al discorso pubblico in una dinamica di educazione civica reciproca: è l’unica via per disinnescare il populismo .
Anzitutto è necessario essere disposti a vivere il dibattito politico ed educare, un passo alla volta, i concittadini e le concittadine che sono oggi presi nel mezzo della retorica populista: senza alterigia, mostrare loro come sia ancora possibile imbastire un dialogo serio, onesto, senza sconti ma libero e rispettoso dell’alterità. A questo punto, l’educazione non può non passare per la testimonianza.
Atteggiamenti di superiorità nei confronti degli elettori di questa o quella forza politica, post al vetriolo contro questo o quel leader e i suoi sostenitori, rischiano di alimentare il populismo, invece che sconfiggerlo, perché incarna l’idea paternalista per cui c’è qualcuno di gran lunga migliore degli altri, che merita ascolto e ha il diritto di gudicare gli altri. La politica non funziona per forza così: il dibattito pubblico (con tutte le sue paradossalità), offre la possibilità di elaborare la propria posizione prendendo parte ad un discorso condiviso, articolato, in cui c’è posto per tutti.
Una simile possibilità, potenziata incredibilmente dai social network, implica una responsabilità, un dovere: precisamente quello di dare ragioni delle proprie opinioni, rifuggendo la tentazione di rispondere al commento razzista con atteggiamenti altrettanto razzisti, di alimentare il conflitto tra “saggi” e “gente comune”, di sparare a zero su chiunque non abbia un’opinione conformata al nostro modello. Ascoltare l’altra parte è il principio su cui si fonda il discorso pubblico e, ora più che mai, abbiamo il dovere di incarnarlo, se non vogliamo gettare via una grande opportunità di crescita politica. Oppure lasciamo che tutto proceda da sé, rinunciando al diritto fondamentale di educare e lasciarci educare senza verticali autoritarismi ma in maniera condivisa e libera.
Immagine di copertina: Mario Savio, Free Speech Movement (Berkeley). Immagine tratta da Google Immagini.