L’insegnamento linguistico come asset politico

Imparare una lingua non è soltanto un esercizio mnemonico né una mera acquisizione di competenze, bensì un modo di avvicinarsi alla cultura di un paese. Quando uno studente si reca all’Alliance Française o all’Instituto Cervantes non sta soltanto sviluppando un percorso di apprendimento del francese o dello spagnolo, ma si sta avvicinando ed interessando all’intero mondo francofono o ispanofono. La capacità di attrazione di una lingua diviene quindi un efficace strumento di veicolazione di soft power (il potere politico della persuasione e dell’attrazione, non della coercizione, c.d. “potere morbido”), che -come sostenuto da Joseph Nye- “nasce dal fascino della cultura, degli ideali e delle pratiche politiche di un paese”[1]. Quella linguistica è infatti una delle principali dimensioni della sfera culturale.

La promozione della lingua nazionale come strumento di comunicazione è da sempre considerato un fattore di potere politico: in taluni casi la lingua è stata imposta (costrizione all’apprendimento, per esempio nei casi delle potenze coloniali nei confronti delle colonie), mentre in altri casi si è assistito ad un’espansione del numero dei parlanti in coincidenza con l’espressione della potenza politico-militare ed economica (fu questo il caso del latino nell’antica Roma, ed è stato il caso dell’inglese nel XX secolo).

In paesi europei come Regno Unito (Cambridge Institute  e British Council), Germania (Goethe Institut), Spagna (Instituto Cervantes), Francia (Alliance Français), Russia (Istituto Puskin) e in maniera minore Italia (Istituti italiani di cultura e Società Dante Alighieri) si è gradualmente radicata la convinzione della rilevanza della promozione linguistica nella propria politica estera. Degno di particolare nota è il forte impegno cinese in tal senso: la Cina -mirando a rafforzare il proprio soft power nell’ottica di creare un Beijin consensus– sta infatti impiegando grandi risorse per l’apertura di nuovi Istituti Confucio in tutto il mondo. Lo Hanban (struttura governativa di Pechino per la promozione della lingua) stanzia infatti 100mila dollari per ogni nuova apertura di un Istituto Confucio realizzata in partnership con un’università che la ospita, secondo un sistema che in termini manageriali potrebbe essere definito come una sorta di franchising.  Basta osservare che solo in Italia sono presenti 16 Istituti Confucio per comprendere la capillarità del sistema per la promozione della lingua cinese, chiaramente inserito in una strategia di rafforzamento del ruolo del paese non solo sul piano politico ma anche culturale.

Qual è l’appeal della lingua italiana nel mondo e quanto soft power ne potrebbe derivare? Se si considera che l’italiano è la lingua di riferimento per gli appassionati di arte, musica, architettura, cibo, opera e moda, il potenziale è veramente enorme. Le iscrizioni ai corsi di italiano nelle università statunitensi sono in costante aumento ed il fenomeno -seppur controverso- dell’Italian sounding dilaga in tutto il mondo[2].  Il portale della lingua italiana (www.linguaitaliana.esteri.it) è un recente tentativo di mettere a sistema ciò che già è stato fatto in materia di promozione della lingua italiana, ma è ancora assente una vera struttura unificata e consolidata a cui rivolgersi per lezioni, approfondimenti e certificazioni, sulla falsa riga dell’Instituto Cervantes. Auspicando quindi un rafforzamento della nostra diplomazia culturale, consigliamo la lettura delle 10 ragioni per cui si dovrebbe studiare l’italiano secondo la Princeton University.

Immagine di copertina: Dante e Beatrice, Filippo Agricola.

[1] https://www.eurasia-rivista.com/la-lingua-del-dragone-soft-power-e-sovranita-linguistica/

[2] https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/10/17/lingua-italiana-potere

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