Pubblichiamo un articolo di Gabriella Romeo, per sondare da punto di vista interno al mondo del lavoro la recente transizione allo smart working, dettata dall’emergenza Covid-19.
Fino a tre mesi fa, se mi avessero chiesto “cos’è smart?” avrei iniziato ad elencare: smart phone, smart box, smart watch, smart tv, smart house, smart fit, smart assistant e simili.
Oggi alla domanda “qual è la prima cosa che ti viene in mente quando pensi a qualcosa di smart?”, l’Italia insieme a me risponde: smart working.
Tutti si sono già pronunciati più o meno opportunamente sullo smart working, quindi il mio contributo oggi vuole essere diverso, o almeno vuole provarci.
Infatti, prima di cominciare l’esplorazione di questa chimera, dovremmo chiederci cosa significhi davvero essere smart.
L’origine della parola “smart”.
Smart è una parola di origine germanica, proveniente dalla radice verbale “smert”. Quest’ultima significava “to be painful, to hurt” che in italiano si traduce con “essere doloroso, ferire”. Più tardi intorno al 1300, “smart” diventò una locuzione aggettivale. Infatti, volendo seguire il significato di qualcosa che duole e fa male, da aggettivo “smart” cominciò ad essere usato per indicare qualcosa di “sharp”, cioè tagliente. Fu proprio quest’ultima connotazione che designò la parola di un nuovo significato, ovvero quello di “strong, quick, intense”, ossia forte, veloce, intenso. Ed eccoci alla fine di questo viaggio. Infatti, nel XVII secolo il senso della parola “smart” modificò il significato assolutista di “forte” fino a farlo diventare “intelligente, arguto e performante”.
Ricordo che tutt’oggi “smart” come verbo significa ancora “fare male”.
La storia etimologica di smart ci ricorda che essere intelligenti, forti ed efficienti non si contrappone ad una dimensione di dolore; anzi, deriva proprio da essa.
Lo smart working targato Covid-19
Questo è vero se pensiamo alla quotidianità del nostro vivere. Per imparare qualcosa, nella speranza di diventare più colti e intelligenti, le ore spese sui libri sono difficili e faticose. Un lavoro ben fatto e di successo, non nasce per caso; piuttosto è il frutto di tanto impegno profuso. Infine, anche il semplice atto di andare in palestra per diventare forti, richiede uno sforzo non banale di mesi e anni.
Se è vero allora che l’essere “smart” non solo contempla ma per essere tale deve attingere alla dimensione della fatica e del dolore, come può la smart working essere diverso?
Infatti, non lo è. Lo stesso smart working, come tutte le cose smart, nasce dal compromesso storico di essere sì, intelligente, ma anche compromettente. Tanto è vero che questo nuovo modo di lavorare non è nato da un moto spontaneo aziendale che rendesse fruibile a tutti il lavoro da casa a qualsiasi condizione. Tutt’altro. Lo smart working come lo stiamo vivendo oggi non ha niente a che vedere con una libera scelta, piuttosto con un compromesso che le aziende hanno dovuto accettare. Ecco perché è compromettente; perché lo smart working con tag COVID-19 è un obbligo calato dall’alto che non abbiamo potuto rifiutare.
Quindi, uno smart che viene dal dolore e che non è scelto liberamente. Allora è sbagliato per definizione?
Assolutamente no. Lo smart working da COVID-19 forse lo è, ma quello che potrebbe significare per il futuro è luminoso e roseo!
Che cosa può cambiare?
Pensiamo ai conglomerati urbani: città da milioni di persone che si costringono a vivere a Milano, Londra, Parigi (quasi sempre e solamente) per lavoro. Lo smart working all’improvviso risolve gentrification, inquinamento urbano e allarga gli spazi.
Perché la verità è che la tecnologia permette davvero di lavorare da casa. Non è più necessaria una migrazione nazionale da polo agricolo a polo industriale. Quello che diventa necessario è una infrastruttura smart e la predisposizione delle aziende ad abbandonare il vecchio modus operandi per abbracciarne uno nuovo, più adatto al futuro e alle esigenze della Terra.
Lo stare in ufficio con i colleghi, andare a far visita ai clienti, fare riunioni faccia a faccia chiaramente ha dei risvolti positivi. Ma anche lavorare in un ambiente familiare meno stressante e in città a misura d’uomo ne ha. Ancora una volta, la parola smart ci insegna che non si può avere tutto, che è necessario il compromesso con il dolore, con una perdita per diventare intelligenti. Se nel futuro lavorare da casa significherà erodere legami aziendali, porterà anche a minori livelli di stress personali e (diciamocelo) ambientali; contribuendo quindi a quella famosa e tanto decantata crescita sostenibile di cui parliamo da decenni.
Lo smart working mi ha insegnato che si può lavorare da casa e che questo porta alla rinuncia di una vita frenetica ed elettrizzante altrove. Mi ha anche insegnato che per essere smart è necessario abbracciare il ritorno alla propria casa, per molti alle proprie radici senza togliersi il diritto al lavoro. Infine, mi ha insegnato che il motto Darwiniano “Non è il più forte che sopravvive, né il più intelligente, ma quello più reattivo ai cambiamenti” è vero.
A te cosa ha insegnato lo smart working?