“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”
In uno dei più celebri passaggi della Commedia, il sommo poeta (di cui parla Ludovica in questo articolo) ci ricorda come proprio la ricerca del sapere sia una delle condizioni più tipicamente e forse unicamente umane. Ma acquisire e tramandare conoscenze non è solo una via per comprendere più profondamente il mondo, per elevarci spiritualmente, per essere pienamente noi stessi. Anzitutto è il fondamento della nostra stessa sopravvivenza, come individui e come specie.
Da migliaia di anni gli esseri umani cercano di trovare un certo rigore nell’acquisizione del sapere, per arrivare a fidarsi maggiormente di ciò che i nostri sensi ci comunicano del mondo che ci circonda. La nascita del cosiddetto metodo scientifico, di cui tutti abbiamo sentito parlare fin dalle scuole medie, risale però solo a qualche centinaio d’anni fa, e la sua paternità è attribuita a Galileo Galilei. Uno dei grandi contributi di quest’uomo di scienza è stato infatti quello di portare rigore e riproducibilità nel mondo scientifico, partendo dal tentativo di descrivere la realtà in termini matematici e quindi misurabili.
Il metodo scientifico (o, appunto, galileiano) si basa su alcuni elementi. Innanzitutto, l’osservazione curiosa della realtà, da cui inizia ogni ricerca. A partire da ciò che i nostri sensi riescono a percepire, lo scienziato formula un’ipotesi, una possibile spiegazione dei fatti osservati, che poi viene testata tramite esperimenti riproducibili. Se diversi esperimenti giungono alle stesse conclusioni e l’ipotesi è rimasta valida, ciò che si ottiene è una nuova verità scientifica. Siamo abituati a pensare alla Verità come un valore immobile e assoluto, e, filosoficamente parlando, si potrebbe argomentare che sia così. Ciò che invece nella scienza resta senza dubbio fluido, dinamico, è il nostro movimento di ricerca della conoscenza. La scoperta scientifica è un work in progress, un cantiere sempre aperto, ma si tratta comunque di una Verità, con le basi più solide che, come esseri umani, possiamo sperare di ottenere: quelle del rigore e della riproducibilità.
Esistono naturalmente, ed agiscono in ognuno di noi, dei bias, pregiudizi intrinseci che possono inficiare la qualità di un esperimento e, quindi, la solidità dei risultati dello stesso. I bias possono essere legati all’esperimento stesso, ma spesso nascono dalla relazione tra esperimento e sperimentatore (rappresentano, in parole povere, l’”errore umano”). Può succedere che lo sperimentatore abbia una tendenza a prestare più attenzione a quello che si aspetta di vedere, e di dare invece minor importanza a dati che non aveva precedentemente preso in considerazione. Per esempio, nello studio di un nuovo farmaco, lo scienziato potrebbe aspettarsi un certo effetto (come l’abbassamento della pressione arteriosa) nei pazienti che assumono tale medicinale, e dunque registrare l’efficacia del prodotto anche con riduzioni minime della pressione. Per evitare questo condizionamento o bias, gli studi sui farmaci sono in genere randomizzati e in doppio cieco. Proseguendo con l’esempio di prima, lo sperimentatore potrebbe rendere lo studio randomizzato dividendo i partecipanti allo studio in due gruppi: uno che assumerà il farmaco antipertensivo, e un secondo gruppo che assumerà una pillola identica d’aspetto ma priva del principio attivo (detta placebo). Se decidesse invece di utilizzare lo studio in doppio cieco, né lui né il partecipante saprebbero quale delle due pillole (il farmaco o il placebo) viene assunta da ciascun soggetto.
Un altro possibile bias è legato alla tendenza a dare un significato di causalità ad un fenomeno rispetto ad un altro. Questo è un punto a cui fare attenzione, perché una semplice correlazione tra due elementi non implica che vi sia un diretto rapporto causa-effetto tra gli stessi. Un simpatico e ormai famoso esempio ci viene offerto da un articolo pubblicato nel 2012 sul New England Journal of Medicine. Questo lavoro dimostra una correlazione lineare e diretta tra il numero di vincitori di premi Nobel e il consumo pro-capite di cioccolato in un Paese, inferendo dai dati un rapporto di causalità (il maggior consumo di cioccolato migliora le performance cognitive di una popolazione). In realtà questo studio, che fa un grande occhiolino a tutta la comunità scientifica, dimostra semplicemente una correlazione e non un rapporto di causalità tra i due fenomeni descritti.
L’applicazione del metodo scientifico è vastissima e copre buona parte degli ambiti disciplinari e delle aree geografiche. Ogni giorno veniamo sommersi da articoli e notizie che riportano, con più o meno chiarezza e più o meno in buona fede, i risultati di studi scientifici (basti pensare a ciò che stiamo vivendo oggi con i nuovi vaccini anti Covid-19). Naturalmente non si può pensare di poter essere esperti in ogni ambito dello scibile umano; la società in cui viviamo è decisamente troppo stratificata e complessa perché possano esistere uomini come forse è stato Galileo. Dobbiamo accettare, anche se non è sempre facile, di non poter né dover sapere tutto, e che è necessario mettere da parte l’orgoglio e affidarsi a chi è esperto dove noi non lo siamo. Tuttavia, dovremmo cercare di acquisire gli strumenti (e la scuola dovrebbe qui giocare un ruolo chiave) per comprendere perlomeno il metodo che sta alla base della ricerca scientifica, in modo da non farci abbagliare e manipolare da numeri urlati o digitati a caratteri cubitali.