di Stella Brambilla e Beatrice Carniato
Da studentesse e ricercatrici italiane all’estero, ci siamo accorte quanto sia importante decolonizzare il nostro sistema educativo. Può sembrare strano il termine decolonializzare. A molti sembrerà più corretto dire decolonizzare, ma sta proprio nella scelta del termine il fulcro di questo articolo. Non si tratta di un articolo di filologia ma la scelta lessicale vi apparirà più chiara attraverso la narrazione di fatti storici. Prima di iniziare a raccontare la mia breve esperienza e le riflessioni che seguono vorrei però che lettori e lettrici si soffermassero a riflettere qualche secondo su queste parole di Rachele Borghi, autrice di “Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critiche del sistema-mondo” (Meltemi Editore, 2020).
“Il problema oggi è la colonialità, non solo il colonialismo. I territori, quelli della mente, quelli dell’essere, quelli del potere vanno quindi decolonializzati, liberati cioè dalla colonialità”.
Le nostre esperienze
Molto spesso le Università inglesi vengono considerate un luogo internazionale, soprattutto in confronto a quelle italiane. Ed è vero. Avendo avuto la fortuna di studiare sia in Italia che nel Regno Unito, non possiamo smentire tale affermazione. Infatti, l’ambiente universitario inglese si è mostrato un’opportunità di conoscere persone provenienti da tutto il mondo.
Questa ricca diversità non deve però distogliere l’attenzione dal fatto che il sistema universitario inglese, così come quello italiano e purtroppo come la maggior parte dei sistemi universitari, abbiano dei curricula educativi colonialisti e discriminatori.
Il primo giorno da School Tutor, Stella si è trovata di fronte giovani facce da tutti i continenti. Alcuni visi erano curiosi, altri stanchi o annoiati, insomma un po’ come tutte le studentesse e gli studenti che alle 9 di mattina devono essere in classe. Dopo aver fatto la lezione come da copione – ammette che era piuttosto agitata essendo la prima volta che si trovava dall’altra parte della cattedra -, prima di abbandonare l’aula per la pausa caffè, si è fermata qualche secondo a pensare. Sfogliando il programma, si è resa conto che stava insegnando “prospettive economiche sullo sviluppo” offrendo ai suoi studenti saggi, esempi e letture principalmente scritti da uomini bianchi. Nello stesso periodo, anche Beatrice notava come la grande maggioranza dei testi e delle teorie su cui si basavano i suoi studi in filosofia, politica ed economia non rappresentassero affatto la popolazione mondiale.
Abbiamo così iniziato ad interrogarci. Assieme, ci siamo confrontate sul nostro percorso di studi e ci siamo accorte che sin dal primo giorno di scuola materna eravamo state vittime di un sistema educativo eurocentrico, per lo più maschilista e razzista. Ci siamo allora domandate come potessero cambiare le cose.
Nell’ultimo decennio, come decolonizzare il sistema educativo, soprattutto quello universitario occidentale, è diventato un argomento piuttosto scottante. Ma dove ci sta portando questo cambiamento?
Dal 2010 ad oggi
Nel 2010 a Parigi la conferenza Which University and Universalism for Europe Tomorrow? Dialogue with the Americas (Quale università e universalismo per l’Europa di domani? Un dialogo con le Americhe) mette in discussione il sapere eurocentrico universitario e mira ad esplorare possibili iniziative per smantellare l’episteme coloniale. In particolare, la discussione si rivolge alle grandi potenze coloniali come la Gran Bretagna, l’Olanda, la Danimarca e la Francia. L’Italia spesso non viene considerata in questi discorsi, ma ciò verrà trattato più avanti, in quanto richiede un’attenzione particolare. Se di vostro interesse, gli interventi della conferenza sono raccolti nel Journal of the Sociology of self-knowledge (Volume 10, issue 1).
Nel marzo 2015, all’Università di Cape Town, Sudafrica, iniziano le proteste organizzate dal movimento Rhodes Must Fall (RMF). Il movimento chiede che la statua di Cecil Rhodes venga rimossa dal campus universitario in quanto simbolo dell’impero Britannico. Rhodes, benefattore e uomo d’affari, vantava una ricchezza basata sullo sfruttamento, la schiavitù e la convinzione che i britannici fossero superiori al popolo nero. La statua non rappresenta, dunque, nient’altro che un colonizzatore inglese che deve il suo vissuto allo sfruttamento della popolazione nera del Sudafrica (Gebrial, pp. 27). Le proteste portarono all’abbattimento della statua nell’Aprile 2015 ed ebbero visibilità e appoggio internazionale. In Europa, l’epicentro del movimento fu Oxford. Nel cortile dell’Oriel College di Oxford si trova infatti una statua di Cecil Rhodes che non è ancora stata rimossa nonostante le numerose richieste di studenti, professori e accademici.
Le statue e la loro rimozione sono però soltanto la punta dell’iceberg. Le proteste sollevano infatti temi e questioni scottanti come la revisione e la nuova stesura dei curricula universitari. Mettono dunque in luce uno dei problemi principali del sistema universitario occidentale che vede come attori principalmente uomini di origine occidentale.
Nato nel 2013 dopo l’assoluzione dell’assassino di Trayvon Martin, il movimento Black Lives Matter (BLM) torna ad essere oggetto dell’attenzione dei media internazionali quando le proteste per la morte di George Floyd vedono scendere in piazza migliaia di persone in tutto il mondo nonostante la pandemia da COVID-19. Seppur con un punto di partenza differente, entrambi i movimenti, RMF e BLM, vogliono combattere un un razzismo istituzionale, sistematico e strutturale della società odierna. Ovviamente stiamo parlando di fenomeni che necessitato di essere contestualizzati paese per paese. Il razzismo negli Stati Uniti ha infatti tratti differenti dallo stesso fenomeno in Italia, in Inghilterra o in qualsiasi altro paese che si voglia prendere in considerazione.
L’Italia e il razzismo sistematico: necessità di cambiare la narrazione della nostra storia.
In Italia, le proteste di Black Lives Matter, hanno fatto emergere l’attivismo anti-razzista e anti-colonialista italiano. I social media hanno reso possibile la partecipazione alle proteste a una fascia più larga della popolazione; hanno inoltre contribuito a rendere pubblici e accessibili a tutti discorsi che fino ad allora erano stati elitari.
Nella primavera del 2020, in parallelo alle proteste di BLM scoppiano le proteste sulla presenza della statua di Indro Montanelli nel parco a lui dedicato a Milano, già presa di mira nel novembre 2019 dal collettivo femminista Non una di meno. La discussione porta in superficie diversi temi che vengono raramente affrontati all’interno del mondo accademico, giornalistico e pedagogico italiano, dimostrando come anche in Italia si sia finalmente riusciti a creare una discussione riguardante o il nostro passato colonialista.
L’ultimo episodio che dimostra la sistematicità del razzismo italiano è avvenuto di recente quando uno scandalo coinvolge il pastificio Molisana: un loro formato di pasta chiamato abissina ha fatto scalpore sui social. In sé l’azione non ha radici nazionaliste, colonialiste tanto meno fascite; anzi, adirittura l’ANPI assicura la buona fede dell’azienda. Il formato si chiama così per tradizione e non perché a capo dell’azienda ci sia un eterno nostalgico dell’epoca fascista e coloniale italiana.
Ma allora dove sta il problema? Il problema sta in ciò che scrivevamo all’inizio di questo articolo. Possiamo decolonizzare e definirci in un’epoca post-colonialista ma fin quanto non ci liberiamo dalla colonialità, fin quando non decolonializziamo le nostre istituzioni, azioni e il modo in cui pensiamo continueremo a fare questi errori.
Colonialismo vs. Colonialita’
Il concetto di colonialità, avanzato da Aníbal Quijano e Walter Mignolo, si fonda sull’idea che la conoscenza (da intendersi come presenza nell’intelletto di una nozione, come sapere già acquisito) sia creatrice della realtà; e si riferisce al fatto che gli strumenti di dominazione usati dai colonizzatori continuino a plasmare forme eurocentriche di razionalità e sapere. Secondo questa teoria, la creazione epistemica di una popolazione è formata da un sistema di conoscenza che è coloniale nella sua essenza in quanto eurocentrico, razzista ed egemonico. La relazione tra epistemologia (conoscenza) e ontologia (cos’è la realtà) può essere quindi descritta come la relazione tra un burattinaio e il suo burattino: durante lo spettacolo, il burattinaio (conoscenza) non si vede, ma è colui che effettivamente dirige le azioni dei burattini che gli spettatori vedono in superficie .
Il motivo per cui i programmi di studio devono essere decolonializzati (e non decolonizzati) vi sarà ora più chiaro. Modelli di conoscenza ed esperienza bianca ed eurocentrica vengono insegnati agli studenti come l’unico modo veritiero e razionale per conoscere e comprendere il mondo. Purtroppo però, questo tipo di strumenti ha il solo risultato di stabilire, naturalizzare e normalizzare l’epistemologia coloniale. Il risultato è evidente: la società manifesta razzismo, sessismo e altre forme di discriminazione non solo nelle sue forme più’ esplicite, ma soprattutto in modo strutturale attraverso istituzioni, ideologie e rapporti di potere. Le stesse pratiche e discussioni sulla decolonizzazione e sullo sviluppo dei paesi non occidentali sono guidate da rapporti, commissioni e piani che sono organizzati e articolati da uomini bianchi e agenzie occidentalizzate come la Banca Mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale.
Da dove iniziare questo processo di cambiamento?
Il cambiamento di cui abbiamo bisogno per decolonializzare le nostri menti è complicato, ma improrogabile. Molte volte i grandi cambiamenti vengono discussi e messi in pratica in una società dove purtroppo sopravvivono le vecchie abitudini. Non è di questo che abbiamo bisogno. Il cambiamento di cui l’Italia ha bisogno deve essere rivoluzionario, il che significa cambiare i paradigmi con i quali cresciamo. Perché ciò sia possibile, è necessaria una rimodulazione del sistema educativo. Se in Inghilterra sono frequenti i dibattiti e le proteste per far si che curricula universitari siano inclusivi, così che si crei un sapere non eurocentrico, egemonico, eteronormativo, bianco e maschile; in Italia sembra non esserci ancora una presa di coscienza tale da rivendicare questo cambiamento.
Nonostante le molte realtà autonome e indipendenti che da sempre cercano di combattere un razzismo sistematico e pedagogico, la discussione fa fatica ad essere portata a un livello pragmatico e non meramente teorico. Di fatti, nonostante più persone abbiano iniziato a guardare con occhi critici la società e il nostro passato, si può affermare che l’Italia abbia perso l’occasione di sedersi al tavolo e cercare metodi efficaci per un cambiamento strutturale.