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Perché occuparsi di frode ed etica accademica?

Intervista a CIMEA

Fròde, sostantivo femminile (dal latino fraus fraudis]. – Atto o comportamento diretto a ledere con l’inganno un diritto altrui o più genericamente, qualsiasi inganno, artificio o astuzia con cui si sorprende l’altrui buona fede. 

Non c’era forse bisogno di riportare la definizione della Treccani del termine, purtroppo la frode è un termine a cui tutti noi siamo esposti, se non per esperienza diretta, per lo meno per quella indiretta delle notizie che compaiono sulle prime pagine delle testate giornalistiche. Quello che a volte dimentichiamo è che il concetto di frode è legato in maniera assoluta con quello di etica, in ogni ambito. La frode è una manifestazione della mancanza di etica, che è un concetto invece molto meno raggiungibile e molto meno definito. 

Appellandosi sempre alle care vecchie definizioni, non esaustive dei concetti, ma concise e chiarificatrici, l’etica pare essere quel sostantivo femminile di derivazione greca che indica  “la riflessione intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso sé stessi e verso gli altri, e quali i criterî per giudicare sulla moralità delle azioni umane”. 

Appare chiaro il nesso tra frode ed etica già da questa brevissima riflessione, che, sebbene solo superficiale e nozionistica, è sufficiente per introdurre il concetto di frode accademica o più in generale di frode in ambito educativo. L’accezione più famosa è sicuramente quella finanziaria o quella bancaria, ma il fenomeno nell’ambito dell’istruzione è solo molto meno noto e discusso, non certo meno pervasivo.

Abbiamo l’occasione di parlarne con Chiara Finocchietti, vicedirettrice del Centro di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche (CIMEA) e centro ENIC-NARIC italiano, una realtà che si occupa dal 1984 di informazione e consulenza sulle procedure di riconoscimento dei titoli di studio e sui temi collegati all’istruzione e formazione superiore italiana e internazionale. L’obiettivo principale è ovviamente quello di favorire e promuovere la mobilità accademica, rimuovendo gli ostacoli e collaborando con i sistemi educativi esteri.

In ambito educativo il CIMEA, essendo un centro di documentazione internazionale che raccoglie informazioni sui sistemi educativi in ogni Paese, svolge anche la funzione di centro di ricerca, promuovendo le migliori pratiche, portando alla luce i problemi nel mondo delle relazioni accademiche e attuando soluzioni con altri partner istituzionali, tra i quali i Ministeri dell’Istruzione e l’Unione Europea. 

Cos’è CIMEA esattamente?

Nato negli anni Ottanta, CIMEA è il frutto dell’intuizione che la mobilità potesse diventare un fenomeno di massa, come del resto l’università. Sicuramente, cinquant’anni fa non era nemmeno concepibile il ruolo di un centro nazionale per il riconoscimento dei titoli. Con l’avvento del Programma Erasmus+ e la proliferazione successiva di progetti simili, la necessità fu quella di avere centri competenti nella valutazione dei sistemi e titoli esteri. Parliamo, attenzione, non solo di Università, ma anche di riconoscimento di titoli di scuole secondarie superiori ai fini dell’accesso all’università. 

Quali sono state le tappe più importanti riguardanti il tema del riconoscimento dei titoli a livello globale? 

Una delle date centrali da ricordare è la firma, nel 1997, della convenzione internazionale sul riconoscimento dei titoli, conosciuta come Convenzione di Lisbona: è lì che si riconosce un nuovo diritto per gli studenti, quello di avere una equa valutazione dei propri titoli, senza alcuna discriminazione e valorizzando il singolo titolo. Si trattò di un importante cambiamento culturale, in cui lo studente veniva finalmente messo al centro. Da lì nascono i centri Enic/Naric, che coinvolgono una rete di professionisti da 55 paesi della regione europea che lavorano insieme scambiandosi pareri e informazioni sui propri sistemi nazionali.

In questa attività di coordinamento, quali sono le complessità e le discussioni che emergono, data la diversità dei vari sistemi accademici?

A livello europeo si è già fatto molto in materia di integrazione, internalizzazione e di trasparenza, anche se i governi hanno sempre avuto difficoltà a cedere la sovranità sull’educazione. Oggi, ad esempio, non esiste più l’equipollenza nel nostro sistema normativo, ma si parla di riconoscimento finalizzato. Mi spiego: a seconda del fine della specifica domanda, che si tratti di iscriversi ad un corso di studi o trovare lavoro, ci sono procedure di riconoscimento diverse, finalizzate appunto allo scopo. L’equipollenza è un concetto superato: perché trasformare un titolo tedesco o spagnolo in un titolo italiano? La ricchezza dello studiare all’estero risiede proprio nel possedere titoli di altri sistemi.

Con i Paesi europei il processo è sicuramente più fluido, anche grazie alla rete che si è già creata. Con gli altri Paesi invece, magari più culturalmente e geograficamente distanti, come avviene il dialogo e attraverso quali figure? 

Innanzitutto il riconoscimento è un lavoro di ricerca, che inizia dal comprendere la natura accademica e l’evoluzione delle riforme in ambito educativo del Paese in questione. In caso di dubbi, ci si confronta con i colleghi oppure con l’ente nazionale competente come il Ministero o l’Università estera. In ogni caso, la prima persona che viene interpellata (in buona fede), secondo uno dei principi della convenzione di Lisbona, è il detentore stesso del titolo, che può fornire informazioni rispetto al contenuto del titolo e al percorso compiuto per ottenerlo.

Veniamo ora al fulcro dell’intervista, focalizzandoci sulla frode accademica. Tra le varie attività che portate avanti, una molto interessante riguarda proprio questo ambito. Quali sono le finalità?

Come centro italiano, sono tanti anni che lavoriamo sull’etica dell’educazione accademica. Ci occupiamo in particolare di frode documentale, ovvero la contraffazione, ma anche di istituzioni non accreditate che offrono titoli accademici a pagamento, chiamate anche fabbriche di titoli. Si lavora dunque per contrastare l’offerta di questi prodotti. Poca attenzione invece viene data al lato della domanda, degli studenti stessi che richiedono i titoli contraffatti o che semplicemente non li sanno riconoscere. Qui vi è il fulcro del problema, perché fino a quando ci sarà una domanda di soluzioni di questo tipo, esse prolifereranno. Si dovrebbe partire con il costruire una cultura della trasparenza e dell’etica innanzitutto. 

Per fortuna o per sfortuna, con l’emergenza sanitaria da Covid-19 si è ampliato anche il dibattito sull’etica, soprattutto quella digitale, sulla frode agli esami online e sull’uso dell’intelligenza artificiale e della biometrica per evidenziare tentativi di copiatura (esempio famoso è il software di proctoring, che monitora i movimenti degli studenti durante gli esami). A riguardo è stato pubblicato di recente uno studio sul New York Times, che spiega che se gli studenti prima dell’esame firmano un codice d’onore, il livello di frode si abbassa (banalmente, ci sono meno tentativi di copiatura). Sembrerebbe un metodo un po’ ingenuo per contrastare queste pratiche, ma si tratta di una prima pratica per diffondere consapevolezza, che invece manca a livello sistemico. Un aspetto importante del plagio, ad esempio, è che può avvenire anche per ignoranza di come si citano le fonti. Bisogna dunque creare consapevolezza e mappare la conoscenza sul tema da parte degli studenti per poi capire la strategia d’azione. Con questa finalità è stato creato un questionario da somministrare agli studenti: finanziato dal programma Erasmus+ dell’Unione Europea, sta attualmente circolando nei cinque Paesi partner. I risultati dell’analisi saranno disponibili in autunno. 

Oltre ad associazioni come la vostra e le varie istituzioni pubbliche, chi dovrebbe partecipare a questo dibattito in primis? 

In tutto questo le associazioni studentesche dovrebbero avere un ruolo, non solo di interfaccia con le istituzioni, ma anche di creazione di questo tipo di cultura dell’etica.

L’etica conta, per tutti. L’idea è che gli studenti siano i protagonisti nella sua promozione, perché sta a loro creare le comunità universitarie e scolastiche. Come detto prima, serve consapevolezza, e bisogna allenarsi a coltivare l’integrità. Attraverso una un’analisi sui codici universitari, abbiamo notato come pochissimi trattano del ruolo dello studente. Gli studenti andrebbero più coinvolti. 

Sono già avviate delle attività di diffusione e di dibattito, come tavoli o seminari?

Ci sono bellissime iniziative a livello europeo: una rete di università danesi ha creato un sito per il contrasto del plagio, con l’aggiunta di esercizi pratici per citare correttamente le fonti. Detto ciò, si può fare sicuramente di più. Il Consiglio d’Europa ha recentemente fatto uscire un bando sull’etica, l’integrità e la trasparenza in ambito universitario, aperta a tutti. In ogni caso l’approccio deve essere in positivo.

Per quanto riguarda le modalità per la creazione di consapevolezza, il primo passo è creare interessamento. Per fare ciò ad esempio è più semplice catturare l’attenzione con un questionario sulla frode che sull’etica, ma alla fine è proprio sull’etica e sul valore dell’integrità in ambito educativo che si va a lavorare. Nel report ‘Lauree trenta e Frode’, pubblicato nel 2019, l’intero ultimo capitolo tratta proprio di questo argomento.

Grazie mille. Oltre a questi temi, quali sono i principali studi che state affrontando riguardo il mondo dell’istruzione e dell’educazione oggi? 

Si parla e si ricerca molto sull’inclusività oggi. La convenzione di Lisbona introduce un punto fondamentale: il diritto per i rifugiati al riconoscimento dei propri titoli, anche in assenza di documentazione. Ovviamente, si parte da una verifica ben strutturata, con il supporto di esperti del sistema di riferimento, che conoscono anche la lingua. L’Italia è stata una dei primi paesi a testare questa metodologia. Si parte sempre dall’ascolto di chi fa richiesta di riconoscimento del titolo: l’importanza del non escludere nessuno, soprattutto in ambito di educazione e di possibilità future è fondamentale, soprattutto in situazioni così delicate. Potete trovare maggiori informazioni sul nostro sito, ma è molto interessante sull’argomento anche il progetto del Consiglio d’Europa per la creazione di un passaporto delle qualificazioni per rifugiati

Ringraziando nuovamente Chiara Finocchietti per la disponibilità vi invitiamo, se siete curiosi, a compilare il questionario, ancora aperto per qualche mese: è una occasione per confrontarsi ed acquisire il lessico base riguardante una tematica troppo poco discussa.

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