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Overwork e accademia: una relazione tossica?

“Straordinario” è una parola piuttosto versatile. Possiamo dirlo di un concerto rock, di un quadro appeso al Louvre o dell’ultimo murale di Banksy; oppure possiamo riferirci, in tutt’altro contesto, ad una programmazione del lavoro che va, appunto, fuori dall’ordinario, fuori dalla quotidianità. “Fare gli straordinari” è un’espressione che si riferisce ad un fenomeno molto comune, che assume anche una valenza positiva quando, naturalmente, questi siano retribuiti e restino entro un certo limite orario settimanale. Al di fuori di questi limiti, in genere non si parla più di “straordinari”, ma di overwork, un termine difficilmente traducibile ma che si riferisce sostanzialmente ad un carico di lavoro eccessivo. Premetto che seguiranno alcune generalizzazioni; ogni ambiente di lavoro e ogni persona è diversa e gestisce i propri impegni in maniera differente, e non pretendo di parlare a nome di tutti. Tuttavia, si tratta chiaramente di un evento piuttosto comune e che richiede di essere affrontato. Il fenomeno dell’overwork, spesso non riconosciuto né pagato, è diffuso in molti settori; mi focalizzerò qui prevalentemente nell’ambito accademico che, a causa di alcune caratteristiche peculiari, si presta particolarmente a stimolare questa mentalità.

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Innanzitutto, spesso chi lavora in ambito accademico costruisce in modo significativo, più di quanto accada in altre professioni, la propria identità sul proprio ruolo lavorativo. “Chi sono” e “che lavoro faccio” tendono pericolosamente a coincidere. Il lavoro è un aspetto importantissimo della vita, che può dare grandi soddisfazioni, oltre al semplice sostentamento; e, dopo aver studiato anni e aver combattuto una pressante competizione per restare a galla nell’ambiente accademico, è naturale che rivesta un grande valore. Tuttavia, il passo tra una stimolante passione e una tossica e soffocante relazione con la propria professione può essere breve. La vita però non è solo lavoro; è viaggio, scoperta, relazione, tempo per gli altri e per se stessi, tempo per fare altro e tempo per non fare niente. Per questo bisogna creare delle barriere tra il tempo da dedicare al lavoro, per quanto bello ed importante, e quello da dedicare a tutto il resto.

Il lavoro “intellettuale” o knowledge work è purtroppo prono ad oltrepassare queste barriere, trascinandosi inesorabilmente all’interno dei confini di un tempo più privato. Questo perché è un tipo di attività molto facile da ‘portarsi a casa’: spesso non richiede condizioni di lavoro standard e molte fasi possono essere tranquillamente svolte anche in smart working. Inoltre, fornisce al lavoratore molta autonomia (ma anche la responsabilità di portare a termine determinate task), e permette di auto-organizzarsi con grande flessibilità sia nel tempo che nello spazio. Questi sono tutti aspetti che hanno i loro risvolti positivi, ma che contribuiscono alla cultura dell’overwork – che cosa significa, a questo punto, weekend?

Un altro punto che si collega alla questione della flessibilità e dello smart working è il riferimento alla tecnologia, lo strumento che rende tutto questo possibile. Ormai, le e-mail (ma anche, spesso, i messaggi sul numero di cellulare personale) ci rendono tutti raggiungibili – e di conseguenza si sviluppa la pretesa che lo siamo sempre, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Il lavoro diventa un amante geloso, che esercita un controllo costante. Questo contribuisce a cancellare i confini tra un tempo dedicato al lavoro e l’altro tempo, quello per tutto il resto. In molti ambiti si parla già di implementare il “diritto alla disconnessione”, per permettere di mantenere anche nel mondo virtuale una dimensione privata.

Un altro problema del lavoro in ambito accademico è la produttività (che guida il profitto, e alla quale le Università e gli ambienti di ricerca non sono certo estranei). Tutti i metodi di misura che abbiamo e che vengono attualmente utilizzati sono imperfetti, per usare un eufemismo. Il numero di pubblicazioni o di citazioni, il famigerato impact factor, sono tutti elementi correlati più alla quantità che non alla qualità del lavoro (una cattiva citazione è pur sempre una citazione). Inoltre, questi metodi di valutazione sono costantemente aggiornati, rilevanti e spaventosamente pubblici; questo non fa che incrementare lo stress e la competizione. Una competizione che è sempre più pressante e sempre più diffusa su scala internazionale.

Anche il numero di ore non è che un marker surrogato della quantità e della qualità del lavoro svolto; di nuovo, imperfetto è un eufemismo per questa unità di misura. Il rendimento non cresce linearmente all’aumentare delle ore di lavoro; ad un certo punto subentra la stanchezza e, soprattutto in un lavoro creativo come quello accademico, la produttività tende a diminuire, quantomeno in termini di qualità. Nonostante questo sia chiaro a tutti, non è sufficiente a frenare l’aumento del numero delle ore lavorative, che talvolta è ordinato dall’esterno, ma più frequentemente è auto-imposto dal lavoratore. Chi lavora il giusto numero di ore finisce per sentirsi quasi ‘da meno’ rispetto ai colleghi, e chi lavora molte ore viene lodato, fino a giungere ad una vera e propria cultura di ‘glorificazione’ dell’overwork. C’è chi arriva addirittura a non usufruire dei giorni di ferie che gli spetterebbero per paura di essere additato come nullafacente. Inutile dire come tutto questo sia estremamente negativo per la salute di coloro che sono coinvolti, con un aumento di prevalenza di disturbi d’ansia, dell’umore o del comportamento alimentare. Anche la soddisfazione che la persona prova per il proprio lavoro viene intaccata.

C’è un ultimo punto che vorrei toccare, e riguarda la questione di genere. Le donne sono – ancora – responsabili di gran parte del lavoro non pagato che viene svolto a casa, incluse le faccende domestiche e la cura dei figli o degli anziani. Rispetto al passato sono stati fatti dei passi avanti, con politiche lavorative più family-friendly e maggiore flessibilità. Tuttavia questo non è stato sufficiente, e le donne, soprattutto quelle con figli, subiscono spesso dei rallentamenti o affrontano ulteriori ostacoli nella loro crescita professionale rispetto ai colleghi uomini. Quello che deve cambiare, più delle politiche aziendali, è una mentalità malata per cui il lavoratore perfetto è quello che fa “di più”, che va oltre i limiti, che si dedica interamente, con una devozione che somiglia all’innamoramento, al proprio lavoro.

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