Proclamato e confermato lo sciopero estivo degli appelli da parte di oltre settemila professori universitari italiani. Va detto che il motivo è lecito e anche condivisibile: riconoscere, almeno a livello giuridico (ai fini dell’anzianità di servizio) gli scatti di stipendio congelati nel periodo 2011-2015, come è stato fatto per il resto della Pubblica Amministrazione; e va bene. Va detto anche che almeno un appello per ogni corso è garantito; e sia. Va riconosciuto poi che, sebbene ora non ci sia un governo in carica (e contro chi si sciopera allora?), il nuovo governo dovrà lavorare immediatamente al patto di bilancio e sarà lì che andrà affrontata la quetione sollevata dagli scioperanti: una sorta di sciopero preventivo, per far capire che bisogna riconoscere questo diritto subito; e passi.
Resta tuttavia un problema di fondo che proprio non può passare: uno sciopero degli appelli non è come uno sciopero, che so, dei tram, per cui un disservizio danneggia tutti gli utenti per un giorno. Questo danneggia gli studenti, il più importante investimento che abbiamo, e potenzialmente con lunghe ripercussioni. Quelli che non riusciranno a laurearsi in tempo, quelli che hanno diritto ad una borsa di studio e che devono mantenere una certa media da certificare entro luglio, o gli studenti lavoratori che hanno solo determinati giorni di permesso.
L’idea è forse quella di dare un motivo anche agli studenti per avercela con il ministero? Ma allora non è uno sciopero, è uno scaricabarile. Una guerra tra poveri. Penso al Giappone. Gli autisti degli autobus di Tokyo hanno scioperato contro la compagnia, continuando a fare il loro lavoro ma senza chiedere il biglietto ai passeggeri. Danneggi l’azienda, ma tuteli chi di quel servizio (pur non fondamentale come l’università, verrebbe da dire) ha bisogno. Ecco, potrebbe essere il caso di prendere esempio dai tramvieri, e da quel senso di responsabilità.
– L’Intervallo di Alessandro Storchi