Per parlare di ciò che accadde nello scenario culturale dell’Umanesimo non possiamo che partire da qui: queste due parole latine forse non vi suggeriscono niente, all’inizio del XVI sec. invece sembra che per le strade prima di Venezia e poi dell’intera Europa non si parlasse d’altro.
Festina lente, ossia «affrettati con clama», era infatti il motto della tipografia aperta nel 1494 nella contrada di Sant’Agostino (Venezia) da Aldo Manuzio (Bassiano, tra 1449 e 1452 – Venezia, 6 febbraio1515), il primo editore in senso moderno in Europa.[1]
Quest’ultimo introdusse il carattere a stampa corsivo, il formato in ottavo e ben presto in tutta Europa i suoi volumi tascabili ed economici, le “edizioni Aldine”, si affrettarono (festina) ad essere diffusi, mentre con calma (lente) i curatori nominati da Manuzio andavano preparando edizioni dei classici sempre più filologicamente accurate e accademicamente prestigiose.
Quest’ultimo morì il 6 febbraio 1515, dopo aver stampato circa 130 edizioni in greco, in latino e in volgare: pubblicò contemporanei quali Erasmo, Angelo Poliziano o Pietro Bembo, ma soprattutto i suoi sforzi erano tutti tesi a recuperare ed editare i grandi classici, da Aristotele a Tucidide, da Erodoto a Cicerone, da Sofocle a Luciano, Catullo, Virgilio, Ovidio, Omero.
Nell’Umanesimo i libri iniziarono rapidamente a diffondersi grazie ad Aldo Manuzio e a tutti i sui colleghi sparsi per il mondo allora conosciuto: ciò che pervadeva la cultura del tempo era la sempre più evidente brama di poter entrare in contatto diretto con i grandi classici del mondo antico per potersi abbeverare della sapienza greco-latina. Petrarca e Boccaccio in particolar modo ci danno testimonianza di questa esigenza, che si accompagna al cambiamento allora in corso: l’uomo, vertice e culmine della creazione, celebrato in tutta la sua dignità da Pico della Miradola (Oratio de hominis dignitate), sta lentamente acquisendo nelle nuove cosmologie di G. Bruno, di N. Cusano e poi di N. Copernico un posto del tutto rivoluzionario ed inaspettato all’interno dell’universo, mentre prende consapevolezza dell’enorme valore della propria libertà e non esita a celebrare la propria riscoperta e ‘santa’ corporeità (Valla). Come riuscire a fondare adeguatamente questa nuova immagine dell’uomo? Occorre -ci suggeriscono Petrarca e Boccaccio- attingere a quella fonte inesauribile di sapientia che è contenuta nei classici; per questo però è prima di tutto necessario ricostruire i testi antichi frammentati, confrontare le varie versioni disponibili della medesima opera, distinguere il testo autentico dell’autore dalle aggiunte ed interpolazioni successive, ossia occorre un accurato lavoro filologico preliminare.
Il più famoso tra i filologi dell’Umanesimo fu indubbiamente Valla, che nel nel 1440, durante il pontificato di Eugenio IV, scrisse La falsa donazione di Costantino (pubblicata solo nel 1517): con argomentazioni storiche e filologiche dimostrò la falsità della Donazione di Costantino, documento apocrifo dell’VIII o IX secolo in base al quale la Chiesa giustificava il proprio potere temporale e ex hoc il primato assoluto del pontefice romano su tutti i sovrani europei.
Stando a questo falso storico sarebbe stato lo stesso imperatore Costantino, trasferendo la sede dell’impero a Costantinopoli, a lasciare alla Chiesa il restante territorio dell’Impero Romano con il conseguente legittimo riconoscimento del potere temporale di quest’ultima.
Che gli editori avessero il compito di affidare alle mani del lettore il testo critico delle opere quanto più possibile scientificamente curato è cosa che viene ad affermarsi in maniera del tutto rivoluzionaria nell’Umanesimo; è tuttavia ancora più sorprendente il fatto che la medesima necessità -basti ricordare che non solo in questi anni ogni versione del testo sacro non autorizzata dalla Chiesa era proibita, ma che ai soli ministri ordinati era consentita la lettura del medesimo- venne progressivamente ad affermarsi anche per gli scritti della Bibbia.
Questa esigenza maturò nel corso degli anni fino a Grozio, considerato da Pufendort il fondatore della «scuola del diritto naturale», che inaugurò con le sue Annotationes in Vetus et Novum Testamentum (1679) l’epoca della «critica scientifica della Bibbia », incentrata su una valutazione storica dei libri della Scrittura.
Insomma, se dovessimo dire in poche battute che cosa ha lasciato in eredità l’Umanesimo alle nostre università, potremmo sinteticamente riassumere i principali tratti in tre punti: 1) la diffusione più universalmente possibile della cultura tramite libri tascabili ed economici, 2) l’amore per la sapientia greco-latina attraverso il recupero dei classici dimenticati nel Medioevo e l’edizione critica di tutti gli altri già in circolazione, 3) la filologia (applicata a qualsiasi testo, perfino all’inviolabile canone biblico) quale strumento privilegiato di accesso al sapere.
Tutti noi viviamo costantemente nelle nostre scuole e nelle nostre università di queste tre cose, il problema è che ci siamo dimenticati che non sono per nulla scontate, bensì sono state il frutto di un lungo lavoro di ricerca e in ultima analisi la prima conquista dell’uomo che ambiva alla rinascita intellettuale. Inizia così infatti, proprio con queste tre conquiste, il Rinascimento.
[1] Il motto apparve per la prima volta nel 1498 nella dedica delle opere di Poliziano, mentre il celebre simbolo raffigurante un’ancora (la solidità) con un delfino (la velocità), ricavata da un’antica moneta romana donatagli da Pietro Bembo, comparve con la pubblicazione delle Terze rime di Dante nel 1502.