Ripartire da qui: l’educazione orientata al luogo

Avere una visione di insieme è un privilegio. In tempi di crisi, è risaputo, ognuno pensa al proprio. In questi momenti la percezione sfuma in particolarismi, nella logica del mio e del tuo, dell’esclusione. La retorica dell’emergenza e della crisi in questo Paese è usata senza vergogna: ogni primavera/estate viviamo un’emergenza migranti, ogni agosto un’emergenza caldo, ogni inverno un’emergenza freddo e da capo.

L’effetto di trattare ogni problema come emergenza ha due lati: il primo è che – come si suole dire – a mali estremi, estremi rimedi: la risoluzione di emergenze può giustificare reazioni che normalmente non sarebbero accettate, come la sospensione dello stato di diritto. Il secondo è che a sentire sempre gridare al lupo, come racconta la favola, si finisce per ignorare i pericoli reali. Uno di questi è il cambiamento climatico, rispetto a cui, per dissipare ogni dubbio sulle responsabilità dell’uomo, basterebbe leggere il quinto assessment report di IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicato online, disponibile a chiunque.

 

La scuola, che idealmente è l’istituzione preposta alla formazione del pensiero critico, dovrebbe renderci capaci di distinguere le emergenze vere da quelle false, immunizzandoci da forme di perception management, sempre più pervasive ed efficaci. Arrivando dunque al punto la domanda è questa: la scuola come dovrebbe trattare hot topics, come il riscaldamento globale, senza cadere nella stessa retorica emergenziale di cui sopra? Una scuola che affronta in modo efficace queste sfide, non impegnata solo a preparare al lavoro (quando va bene), deve ancora venire. Tuttavia un esempio positivo in ambito pedagogico lo troviamo proprio relativamente al problema del cambiamento climatico.

Negli anni 90, negli Stati Uniti, nasce un approccio all’educazione verso gli studenti più giovani chiamato place-based education, educazione orientata al luogo, una nebulosa di metodologie non codificate, accomunate da alcuni tratti salienti: l’attenzione per il luogo, la dimensione sociale e naturale locale in cui gli studenti vivono. L’educazione orientata al luogo è esperienziale e interdisciplinare per natura, si pone in opposizione alla tendenza a vivere la scuola attraverso approcci che riposano sul valore degli standard e dell’omogeneizzazione, di cui in Italia è un esempio il test invalsi, negli USA il SAT.
Il metodo prevede lo studio della cultura locale, della fauna e della flora, con esperienze vissute in prima persona e sul campo. Oggi Il ruolo delle emozioni nell’apprendimento, se non ancora del tutto compreso, è stato enucleato; per un bambino (ma anche per chi già è cresciuto) l’impressione nella memoria che può fare una visita allo zoo o al centro civico vale mille lezioni.

In questo modo la sensibilizzazione degli alunni parte dal basso, con un approccio bottom-up, che muove dai problemi che li circondano per inquadrare e capire quelli più estesi, difficili da immaginare, astratti, lontani o invisibili. Inoltre, così facendo si combatte ciò che David Sobel, filosofo e alfiere di questo metodo, chiama Ecophobia. Per Sobel oggi «se vogliamo vedere i bambini fiorire, dobbiamo dare loro il tempo di creare un legame con la natura e il tempo di amare la Terra prima di chiedergli di salvarla».
A circa 30 anni di distanza dalla sua nascita, l’educazione orientata al luogo si è diffusa in diversi Paesi del mondo, non solo in scuole, ma anche organizzazioni no profit. Lentamente, ma con una certa tenacia si è diffusa anche in Australia, Giappone, Costa Rica e in altre nazioni.

Se nessuno pretende che questo metodo cambi il mondo, partire dai piccoli rimane il modo migliore che abbiamo per tentare di farlo.

 

Francesco Fanti Rovetta

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