La scuola e la sfida della conoscenza tacita

Il linguaggio comune tende a parlare di conoscenza al singolare come se avessimo a che fare con un’unica cosa, un solo genere, un’entità monolitica. Ma ciò è inesatto. Da tempo sappiamo che esistono molte, diverse tipologie di conoscenza. Una lista completa e definitiva non esiste e probabilmente è meglio così. Rimanere aperti alla possibilità che nuove forme di conoscenza, che non sappiamo esistere, vengano comprese in futuro non è una eventualità tanto remota. L’uomo è un animale molto complesso ed è preso in una tensione continua verso una comprensione di sé più raffinata e adatta.

Gran parte di ciò che sappiamo, non sapremmo dirlo. Come si va in bicicletta, ad esempio, è molto più facile da mostrare che descrivere in una lista di istruzioni. Questa tipologia di conoscenza, la conoscenza tacita, che costituisce gran parte di ciò che sappiamo, è stata teorizzata in modo preciso solo poco più di 50 anni fa da M. Polanyi in un libro, ora classico dell’epistemologia contemporanea: Personal Knowledge. Questo tipo di conoscenza rende estremamente difficile ricreare l’intelligenza umana e ha portato i sostenitori del progetto di intelligenza artificiale forte, a prendere le distanze – con la svolta negli anni ’80 dall’intelligenza artificiale simbolica verso quella sub-simbolica, ora dominante – dal tentativo di imitare l’uomo per concentrarsi sulla risoluzione di singoli problemi. Il know-how dell’artigiano, l’occhio attento di un medico anziano, non sono conoscenze che possono essere tradotte in forma verbale – o almeno non completamente -, eppure ci sono. Sono il risultato dell’esperienza maturata sul campo, che insegna a vedere possibilità rispetto alle quali il principiante è cieco.

Ciò che intendiamo comunemente quando parliamo di conoscenza, quella condivisibile, dicibile, che troviamo sui libri di testo, è la conoscenza proposizionale o dichiarativa. Il valore della conoscenza proposizionale è indiscutibile. Su di essa si basa la scienza, intesa come teoria: la fisica, la matematica, la filosofia. Pensare che la conoscenza si solo questa è però un abbaglio che ci porta a concepire un’idea di progresso che esiste solo nella nostra testa. Possiamo dire che come specie abbiamo accresciuto la nostra conoscenza nel tempo solo se intendiamo la parola in questo secondo senso.

Se guardiamo alla formazione istituzionale, in Italia, almeno parzialmente, questa dicotomia si incarna nella differenza tra Università e ITS (istituto tecnico superiore), liceo e istituto tecnico. Eppure, in generale, oltre il continuo parlare di soft skills, life skills e competenze trasversali rimane ancora molto da fare per integrare il modello scolastico. Il problema sembra essere che la scuola come istituzione è nata in un periodo storico, che – come per la maggior parte della storia dell’umanità – vedeva un’abbondanza di conoscenze tacite e pratiche e una carenza di conoscenza dichiarativa. Con la rivoluzione digitale, nella parte di mondo più ricca e industriale in cui ci troviamo, la situazione si è ribaltata: la conoscenza dichiarativa è, almeno in linea di principio, accessibile a chiunque abbia una connessione internet, mentre la conoscenza tacita in molti ambiti rischia di scomparire per sempre, lasciando dietro di sé un vuoto che sarà difficile da colmare e una perdita, non solo economica, incalcolabile.

Il cambiamento è stato così rapido da lasciare le istituzioni disorientate. La consapevolezza di questo cambiamento sembra però esserci e segnali che siamo sulla strada giusta, almeno incipientemente, non mancano: l’obbligo del tirocinio per conseguire una laurea, l’alternanza scuola lavoro, pur avendo delle criticità, puntano proprio in questa direzione.

 

 

Francesco Fanti Rovetta

 

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