Lo scorso mese, durante un’attesa interminabile all’aeroporto di Milano, sono stata letteralmente folgorata da un bellissimo articolo scritto da Danny Fortson per Vanity Fair. L’articolo riguarda l’educazione che viene impartita ai figli della Silicon Valley, i bambini nati dai geniali creatori dei software e delle app che invadono quotidianamente la nostra vita. Persone la cui lungimiranza e creatività giungono ai limiti delle umane aspettative. Questi genitori, inventori e pionieri di tecnologia e digitale, a detta di Danny Fortson e contro ogni naturale previsione, compiono sempre più spesso scelte radicali in tema di educazione: essi privilegiano infatti l’iscrizione dei propri figli a istituti scolastici dove computer e smartphone sono vietati. Dove cioè l’ambiente e il sistema educativo risultano non contaminati dai prodotti del loro mestiere.
Una di queste scuole è la Waldorf School di San Francisco. Lo stesso Steve Jobs vi aveva iscritto la figlia Lisa. La Waldorf School è un istituto ispirato alle teorie di Rudolf Steiner. Attualmente esistono più di 1.100 scuole steineriane in oltre 80 paesi del mondo, di cui 160 in Nord America. Missione della pedagogia steineriana è sviluppare individualità libere, dinamiche, mai perfette in termini di apprendimento. Ogni bambino ha potenzialità proprie, che vanno fatte emergere e coltivate rispettando tempi di evoluzione fisica e mentale diversi e in divenire. Le 3 facoltà dell’animo umano, Volere, Sentire e Pensare, devono trovare un equilibrio: tale sintesi si raggiunge rendendo il bambino capace di proiettarsi nel mondo esterno, affinando comprensione sensoriale e pensiero critico, promuovendo attività motoria, fantasia, espressività, creatività e iniziativa. Capacità che in un mondo sempre più meccanizzato e virtuale rischiano di essere trascurate. Non svilupparle vorrebbe dire minare una crescita non solo individuale, ma anche sociale. Coerente con la filosofia da cui trae ispirazione, la scuola frequentata dai figli della Silicon Valley si propone l’obiettivo di realizzare una responsible human freedom: gli studenti saranno condotti a diventare liberi, resilienti, socialmente responsabili, moralmente profondi, creativi nel progettare lives of purpose and direction. L’educazione si concentrerà sulla crescita emozionale, intellettuale e sociale dei bambini, attraverso una prima fase di gioco creativo suscettibile di far emergere le loro capacità individuali, una seconda fase di insegnamento accademico incentrato sull’arte, e una terza finalizzata alla speculazione intellettuale e allo sviluppo del pensiero indipendente rivolto all’indagine personale ed empirica.
Indipendenza, creatività e personalità, queste le caratteristiche e le qualità ideali di ogni buon cittadino del mondo secondo la pedagogia di Steiner. Ciò che a mio avviso si dovrebbe rinvenire nella vocazione di ogni scuola, pubblica o privata che sia. La Waldorf School, che di queste ambizioni fa il proprio cavallo di battaglia e su di esse ha elaborato il proprio statuto, declina la propria mission con metodologie anacronistiche: la politica del “niente schermi” riporta a un tempo quasi mitologico e nostalgico, fatto di gessetti, di fogli, di quaderni a righe o a quadretti, di pomeriggi trascorsi in giardino a giocare, a disegnare, a fantasticare. Attività puerili e semplici, che si trasformano in un lusso nel 2019: in senso temporale, dato che siamo circondati e bombardati senza tregua da immagini e informazioni provenienti da piccolissimi schermi che abbiamo in tasca; ma anche in senso letterale ed economico, poiché le rette di questo istituto vanno dai 19 ai 40 mila dollari all’anno, a seconda della fascia di età. Anche le babysitter dei figli della Silicon Valley sono costrette ad adattarsi a questo impianto pedagogico: i contratti prevedono infatti clausole severe che vietano loro di usare cellulari durante le ore di affido dei bambini.
La netta cesura tra professione ed educazione operata dai genitori digital che scelgono per i propri figli la tradizionalista Waldorf School è il prodotto di una paura sempre più concreta e studiata: la perdita di vivacità nei bambini correlata a un abuso di nuove tecnologie. Ci sono moltissimi studi che lo dimostrano: i bambini e gli adolescenti trascorrono dalle 5 alle 7 ore davanti a uno schermo ogni giorno, ma passano anche meno ore a dormire, ad incontrare l’altro, ad immergersi in quei meccanismi relazionali ed etici che fondano la società; manifestano sempre più spesso inclinazione a depressione, solitudine, minor autocontrollo, scarsa concentrazione, instabilità emotiva, autolesionismo e addirittura suicidio. La percentuale di questo disagio generazionale risulta aumentata del 50 % solo negli ultimi 6 anni. La gravità del fenomeno ha fatto sì che negli ultimi tempi siano sorte iniziative quali la call for action del Guardian, un manifesto redatto da autorevoli educatori, psicologi, scienziati e insegnanti che invocano a gran voce delle “linee guida nazionali sulle tecnologie digitali per bambini fino ai 12 anni, prodotte da autorità riconosciute nel campo della salute e dello sviluppo d’infanzia”.
La psicologa americana Jean Twenge ha scritto un libro dal titolo iGen: Why Today’s Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy – and Completely Unprepared for Adulthood – and What That Means for the Rest of Us (tradotto in Italia per Einaudi). Di questo libro si parla anche nell’articolo presente in The Atlantic dal titolo eloquente “Have Smartphones Destroyed a Generation?”, nonché nel report del 2018 sempre di Jean M. Twenge e W. Keith Campbell Associations between screen time and lower psychological well-being among children and adolescents: Evidence from a population-based study. Dal 2013 Jean Twenge studia il calo endemico della felicità e della soddisfazione personale nella giovanissima popolazione americana. Secondo la sua ricerca il benessere psicologico dei bambini e degli adolescenti risulterebbe inversamente proporzionale alle ore trascorse online e su piattaforme social e al contempo direttamente proporzionale alle non-screen activities. I bambini nati con lo smartphone prima del ciuccio, che non hanno mai sperimentato una vita senza connessione, mostrerebbero notevoli differenze e difficoltà in termini di benessere, interazione sociale e percezione del mondo rispetto alle generazioni precedenti. Le conseguenze non ricadrebbero solo sullo sviluppo cerebrale, sarebbero soprattutto rilevanti sul piano della costruzione della nostra società, sempre più disgregata.
I bambini che stiamo crescendo hanno tutto e possono accedere a tutto con un semplice schermo. Meno che all’indipendenza. Sono le prime vittime fragili di una tecnologia progettata per semplificare tutto; nata per essere amata, per diventare indispensabile, per creare dipendenza. Solo dall’età di 12-13 anni un ragazzo è in grado di imparare a pensare in maniera analitica e flessibile: da quell’età egli diventa capace di comprendere come telefoni, tablet e computer siano strumenti da usare, non oggetti capaci di rendere noi umani strumentali e senza volontà. Nell’era del digitale, permettere uno sviluppo indipendente della personalità e della creatività richiede che la scoperta della tecnologia venga gestita tramite una preziosa e consapevole alfabetizzazione digitale: solo questa è in grado di trasformare il digitale nel quarto pilastro dell’istruzione dopo la lettura, la scrittura e la matematica, ovvero nella quarta abilità di cui abbiamo bisogno per creare e trasformare noi e il mondo.
Diciamo che il vero quesito che si pone dopo aver letto queste suggestioni non è se credere o meno nelle scuole steineriane, che seguono una certa filosofia, e rimangono scuole di élite. La questione non è nemmeno quanti tablet debbano essere portati all’interno della scuola pubblica italiana, purtroppo una riflessione alquanto limitante condotta sull’impatto del digitale nella nostra società. La vera sfida è comprendere che qualcosa di epocale sta accadendo, e che se l’alternativa al palesarsi di una prepotente realtà tecnologica sembra essere la creazione di zone franche senza tecnologia, significa che l’umanità non si è preparata ad accogliere con consapevolezza e responsabilità questo cambiamento. I genitori sono diventati spesso disattenti, poco interattivi e sottostimolanti, finanche diseducativi per i propri figli, a causa dell’affascinante tecnologia che hanno in tasca o in borsa che li distrae dal proprio ruolo educativo; la società non si è fatta carico di divenire digital mentor per i cittadini di domani, non ha evoluto i sistemi educativi in funzione della comprensione della realtà nella quale siamo immersi e nella quale i nativi digitali dovranno vivere e lavorare. Assumiamoci la responsabilità di fornire loro gli strumenti educativi che li rendano uomini e donne capaci di ergersi con sicurezza di fronte alla rivoluzione digitale, così che possano guidarla, e non esserne travolti.
Immagine di copertina tratta da Google