“Noi siamo dunque -e come potremmo dimenticarlo?- nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità nella nostra vocazione interiore personale.”
L’autore di queste illuminanti e quanto mai attuali parole è E. Husserl, il padre della fenomenologia e forse il più grande filosofo del ‘900, che ne “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale” si interroga a fondo sull’essenza dell’atteggiamento filosofico.
Il mestiere del filosofo, che in definitiva è il mestiere di Socrate, cioè di ogni uomo che voglia abitare con un pensiero critico la propria epoca e la propria polis, trova il suo fondamento in due aspetti essenziali: il dubbio e il saper rendere ragione.
Nulla di ciò che presumiamo di conoscere va dato sic et simpliceter per saputo: tutto va sempre e di nuovo interrogato a fondo, su ogni cosa si deve sempre e di nuovo calare la tagliente arma del dubbio -questo è di fatto il primo insegnamento socratico.
Che cos’è quella cosa che mi appare? Qual è la sua ragion d’essere? Perché mi appare in questo determinato modo e non in un altro?
In questo interrogare è già presente anche il secondo atteggiamento socratico fondamentale che contraddistingue il pensiero critico: il saper rendere ragione di ciò che mi appare, di ciò che conosco o di ciò che vado facendo.
Dice bene Husserl che in questo, e solo in questo, sta di fatto il succo dell’atteggiamento di Socrate, e pertanto più in generale di ogni filosofo: il sapersi meravigliare (ma nel senso dello thaumazein del primo libro della Metafisica di Aristotele) incessantemente di fronte ad ogni singolo ente o ad ogni singola nostra praxis e cercarne le ragioni profonde.
Questa postura critica del pensiero, che è ciò che di fatto ha contraddistinto da sempre la nostra storia d’Europa, è oggi pesantemente in crisi.
Come potremmo del resto dire il contrario allorquando le nostre scuole si basano su un sistema che mira essenzialmente ad istruire (cioè a trasmettere quante più nozioni possibili ai propri studenti) piuttosto che ad educare (e-ducere, tirar fuori, che è esattamente l’opposto di istruire)? Come potremmo affermare che le cose non stanno così allorquando la scuola, attraverso il suo “sistema di verifica del profitto”, si trasforma per la maggior parte dei ragazzi in un sistema punitivo piuttosto che in un’occasione per mettere a frutto la propria intelligenza (sequenziale e simultanea), che non si esprime per tutti allo stesso modo e attraverso le medesime vie?
Concentrando tutta l’attenzione sui programmi delle singole discipline, da imparare e da saper ripetere a memoria ossessivamente, i docenti trascurano di fatto le persone che hanno davanti ai logo occhi quotidianamente e che tuttavia fingono di non vedere, ciascuna delle quali è dotata di abilità differenti dalle altre, nonché di esigenze e anche tempi di apprendimento del tutto personali.
L’eliminazione della centralità della persona nell’insegnamento e la concezione di quest’ultimo sulla scorta di un processo industriale (massimizzare il numero di studenti eccellenti ogni anno attraverso un sistema istruttivo – e pertanto non educativo- basato sulla punizione), dove ciò che conta non è più la passione per la conoscenza che si è riusciti a maturare, ma solo il profitto che si è ottenuto, sta portando alla completa dissoluzione del pensiero critico. Tutto questo è esattamente l’opposto dell’insegnamento socratico, che metteva al centro di tutto la persona: è solo infatti nel confronto diretto e a tu per tu con l’altro che si viene stimolati a rendere ragione fino in fondo della propria posizione.
Purtroppo però oggi -e quante volte lo sentiamo ripetere dai professori dei nostri licei?- non c’è tempo per questo esercizio di dialogo con gli studenti, giacché il programma da svolgere è ancora lungo e, per i più sfortunati, gli esami sono alle porte.
Pertanto prima di concludere, riascoltiamo per un attimo la citazione iniziale: “la nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi (cioè quanti abitano criticamente il proprio tempo) include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità nella nostra vocazione interiore personale”.
Gli uomini di domani sono quelli che noi oggi formiamo nelle nostre scuole: sta a noi la responsabilità di decidere se l’umanità di domani potrà essere ancora fedele all’insegnamento socratico o se definitivamente abdicherà all’onere del pensiero critico.