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Uno spaccato del sistema scolastico Thailandese

Immagina di dormire su un materasso di qualche centimetro appoggiato ad un asse di legno. Immagina di svegliarti sudato e di lavarti con un catino e una bacinella di plastica rosa. Immagina di cospargerti di borotalco e di scendere di corsa le scale a piedi nudi per fare colazione con altre tredici persone. Immagina di essere chiamato per salire in macchina con un nome che non è il tuo. Sì, perché in Thailandia nessuno viene chiamato con il suo vero nome. Il mio era Noina, in italiano Annona Squamosa, un frutto dall’aspetto sgradevole, ma dal sapore dolcissimo. 

Mi sono chiesta per lungo tempo se il nome datomi dalla mia famiglia ospitante non riflettesse un qualche loro giudizio nei miei confronti, ma voglio pensare che non sia così, dato quanto sia comune avere nomi strani, ad esempio Mixer, o Hamster. L’attribuzione di nomi tanto insoliti, assolutamente slegati da caratteristiche del possessore, mi permette di far notare due aspetti curiosi della Thailandia. In primis che, soprattutto nelle zone periferiche del paese, l’inglese non è molto conosciuto (proprio perché le persone utilizzano termini come mixer senza sapere cosa questo sia); in secondo luogo, che i nomi reali delle persone sono talmente lunghi e complessi che vengono utilizzati unicamente nei documenti ufficiali. Quest’ultimo aspetto riflette poi una viscerale caratteristica del popolo thailandese: il legame con la tradizione, la formalità e la celebrazione. Nonostante i nomi ufficiali delle persone siano tanto difficili da non essere usati mai, hanno un valore tradizionale che li rende intoccabili. 

Chi sono?

Domanda talvolta dilemmatica. Nello sforzarsi di rispondere, la maggior parte degli occidentali descriverebbero il loro carattere, le loro passioni, quello per cui si distinguono dal resto del mondo. In Oriente invece, e la Thailandia non fa certo eccezione, si dice di chi si è figlio e dove si lavora o si studia. Io mi presenterò semplicemente dicendo il mio nome, quello vero, Francesca.

In questo articolo vi racconterò un po’ della mia Thailandia, il luogo dove ho deciso di fare uno scambio annuale durante il quarto anno delle superiori. Per quanto mi piacerebbe perdermi nei racconti delle mie impressioni ed emozioni, sarà bene qui attenersi al tema dell’educazione. E allora immergiamoci subito nell’argomento.

Strutturazione del Sistema Educativo 

Come in Italia, il sistema educativo thailandese è costituito da dodici anni di educazione pre-universitaria garantita anche gratuitamente. Escludendo gli anni di scuola dell’infanzia, principalmente privatizzata, ci sono sei anni di “Prathom”, o educazione primaria, con bambini dai 6 agli 12 anni, e sei anni di “Mattayom”, o educazione secondaria, con ragazzi dai 12 ai 18 anni. La scuola è obbligatoria fino al Mattayom 3, cioè fino ai 15 anni. È infatti nel momento in cui la frequenza scolastica diventa facoltativa che si può attuare una prima scelta di indirizzo di studi, indirizzandosi a una scuola professionalizzante oppure a un corso di studi preparatorio all’università. Ci sono due modi fondamentali per accedere all’università: il primo è fare un test proposto dall’università stessa, il secondo è attraverso il sistema di ammissione gestito dalla NIETS, o National Institute of Education Testing Service. Quest’ultimo tipo di meccanismo di ammissione è piuttosto complesso e ha subito diverse modifiche nel corso degli anni dovute a numerose sperimentazioni.

Parlando un po’ di numeri, nel 2014 il 96% dei bambini in età adatta frequentava la scuola primaria, ma solo l’86% la scuola secondaria. La maggior parte dei bambini che non vanno a scuola proviene da contesti svantaggiati. Ad oggi è facile immaginare come questi dati, a seguito dell’emergenza della pandemia, più che migliorare stiano peggiorando. In un paese, infatti, con un PIL pro capite di 7,189.04 dollari nel 2020 (con un calo di quasi 600 dollari rispetto al 2019, tenendo conto che in Italia questa stima è di 31.676,20 dollari), l’accesso a un dispositivo che permetta di fare lezione online è un privilegio per pochi

Uniformi

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Una delle prime cose che la mia famiglia ospitante mi ha portata a fare una volta atterrata è stata andare a comprare l’uniforme scolastica. È un capo di abbigliamento estremamente importante per la cultura thailandese, in quanto dimostra l’appartenenza a un determinato istituto scolastico. L’uniforme cambia di colore in base alla scuola e di tipologia in base all’anno scolastico. Sotto la spalla destra viene poi ricamato il proprio nome (quello vero) e il corso di studi. Indossando l’uniforme si rappresenta la scuola ed è quindi severamente vietato qualunque comportamento ritenuto non idoneo, come fumare, bere alcolici, sedersi in modo inappropriato o frequentare locali e quartieri con una fama negativa. Non è possibile indossare alcun tipo di gioiello, mettere lo smalto o avere le unghie lunghe, e tingersi i capelli. Addirittura, fino al Mattayom 3 è previsto uno specifico taglio di capelli, sopra le spalle per le femmine e rasati per i maschi. Queste limitazioni sono vissute con grande frustrazione dalla maggior parte degli studenti, soprattutto durante gli ultimi anni di scuola secondaria. I giovani Thailandesi, infatti, sono molto sensibili alla moda cinese e soprattutto coreana, caratterizzata da modificazioni estetiche piuttosto evidenti e abiti molto distanti da quelli imposti dall’uniforme, per la maggior parte composta da una camicia e una gonna a coste lunga fino sotto il ginocchio per le ragazze e dei pantaloncini per i ragazzi. Frequentando una normale scuola di provincia, mi sono accorta di numerosi escamotage usati dagli studenti. Molte ragazze si facevano accorciare la gonna sotto il ginocchio e compravano camicie più attillate, tingevano i capelli di una sfumatura lievemente più chiara del loro colore naturale così da non risultare eccessivamente appariscente, e aspettavano la fine delle lezioni per correre in bagno a truccarsi.

Alla fine del 2020 c’è stata una protesta studentesca nei confronti delle rigide regole scolastiche sull’uniforme, in cui usando l’hashtag #1ธันวาบอกลาเครื่องแบบ (#1DecemberDownwiththeuniform) un gran numero di studenti si è presentato a scuola con abiti non formali, reclamando la libertà sulle proprie vite e sui propri corpi.

Nella maggior parte delle scuole, gli insegnanti hanno un tipo di vestiario suggerito, ma non possiedono una rigida uniforme. Nel 2017, quando ero lì, gli insegnanti dovevano portare il lutto per la morte del re, vestendosi sempre di nero o con toni sobri. 

La mia scuola

Parlando di strutture edilizie, le scuole thailandesi sono molto diverse da quelle italiane, strutturandosi come dei veri e propri campus. All’interno ci sono numerose strutture sportive, negozi di cibo e cancelleria, una o più grandi mense con diverse tipologie di cibo tra cui poter scegliere. La mia scuola, nonostante fosse in una piccola città nel Nord-Est del paese, contava almeno 6 edifici a 3 piani con aule e uffici degli insegnanti, due strutture adibite alla musica e all’arte, una casa per le lezioni sul buddhismo, un campo di atletica con all’interno un campo da rugby, due campi da basket e due campi da pallavolo. Oltre ai due negozi di cibo e cancelleria c’era una grande mensa, con stands per gelato, noodles, fried rice e omelettes.

Una caratteristica quasi costante delle scuole thailandesi è l’apertura: le finestre non hanno vetri e spesso i corridoi non sono chiusi, ma sono come lunghi balconi coperti affacciati sull’esterno. È presente una continuità tra il dentro e il fuori della struttura scolastica, perché non ci sono ostacoli fisici nello spazio. I muri servono a delineare dei confini che però rimangono sempre comunicanti fra loro.

All’ingresso di ogni scuola c’è poi una casa degli spiriti, cioè è un piccolo santuario in miniatura dove, secondo una credenza di origine animista, ha dimora lo spirito che protegge il luogo in cui la casa degli spiriti si trova. Sembra una piccola casa, per la maggior parte fatta in legno, appoggiata su un piedistallo. È molto importante, passandoci davanti, abbassare il capo in segno di rispetto. Questo si fa anche nei confronti degli insegnanti e degli studenti più grandi, nonché di fronte a qualunque raffigurazione del re e della bandiera. Il mancato rispetto può addirittura portare alla carcerazione.

Una giornata tipo

La giornata scolastica inizia alle 8, con l’appuntamento di tutte le classi alle 8.30 per l’alzabandiera e l’inno nazionale. Gli studenti sono in fila indiana, con davanti il proprio capo classe, e gli insegnanti controllano che siano tutti presenti e vestiti in modo appropriato. Essere assenti durante questo momento viene ritenuto una mancanza di rispetto nei confronti della nazione e del re, e influisce negativamente sulla valutazione scolastica finale. 

Prima di poter entrare negli edifici scolastici bisogna togliersi le scarpe (sempre uguali per tutti) e lasciarle sulla strada all’ingresso e se piove in appositi cassetti, o con sé in classe. Le lezioni sono simili a quelle in Italia, frontali, caratterizzate da verifiche e interrogazioni, nonché di compiti a casa che vengono periodicamente controllati. Il livello scolastico è però molto più basso che in Italia, anche negli istituti superiori che preparano all’università. Da un lato, a farmelo pensare è la mia esperienza in prima persona. Dall’altro, alcuni dati supportano questa mia affermazione: la Thailandia era uno dei 72 paesi che hanno fatto parte del PISA (Programme for International Student Assessment) del 2015 ed è risultata 54esima nelle scienze e 57esima in matematica, ma soprattutto gli studenti thailandesi del Mattayom 6 falliscono mediamente in 8 materie su 9 nei test nazionali. Nel sistema scolastico thailandese non è possibile bocciare gli studenti, sono solo questi che possono scegliere di rifrequentare l’anno di fronte a lacune troppo evidenti, ma l’unica misura di valutazione della loro preparazione scolastica è legata al GPA (Great Point Average) alla fine del percorso scolastico.

Verso le 12 o le 13, ci si muove tutti verso la mensa e si sceglie cosa mangiare. Dopo pranzo si proseguono le lezioni, con frequenti ore buche in cui tipicamente gli studenti si sdraiano facendo riposini (so che può risultare inusuale, ma lì è piuttosto comune trovare ragazzi sdraiati a terra con una coperta colorata addosso) o giocano al cellulare. 

La giornata scolastica finisce all’incirca alle cinque di pomeriggio. Qualcuno rimane per sport o club, ma la maggior parte delle persone si ferma a qualche bancarella di dolcetti appena fuori dall’ingresso scolastico e poi torna a casa.

Un bilancio finale

Per quanto accomunati dal legame alla tradizione sia in didattica che in formalità, il sistema scolastico italiano e quello thailandese hanno ben poco in comune. 

La qualità dell’educazione in primis vede una distanza abissale, dimostrando che le lezioni frontali possono avere una efficacia e uno spessore completamente diverso in contesti differenti e con una formazione diversa alle spalle. 

Anche il luogo-scuola viene vissuto in modo molto diverso. Per la maggior parte dei ragazzi italiani la scuola è solo il luogo in cui si studia, mentre per i giovani thailandesi è un luogo ricreativo, dove mangiare, acquistare, praticare sport e attività extracurriculari. Per i Thailandesi la scuola è un luogo con molti significati, alcuni dei quali si svincolano dalla didattica in senso stretto.

La disciplina e la rigidità che caratterizzano molti momenti della giornata di un ragazzo thailandese possono apparire inconcepibili oggi in Italia, per motivi che vanno oltre l’apparente severità, come la mancanza di scelta. La tradizione e il rispetto vengono imposti, non insegnati. Non viene sviluppato il senso critico perché non è richiesto; anzi, è quasi scomodo. 

In un mondo interconnesso, conoscere ciò che è diverso da quello a cui siamo abituati ci permette di comprendere meccanismi complessi in modo più immediato e intuitivo, ma soprattutto di guardare al nostro sistema per apprezzarne i punti di forza e migliorarne quelli di debolezza. 

La Thailandia e la sua scuola mi hanno insegnato tanto, ma soprattutto mi hanno aperto gli occhi, spingendomi a non dare più per scontata la mia realtà.

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