Sin dall’antichità educazione e politica si sono sempre mosse a braccetto. L’influenza, o meglio, l’interdipendenza tra la visione politica di una comunità e il modo in cui questa educa le giovani menti ha scandito le diverse epoche della storia. In democrazia l’istruzione viene affidata alla collettività, definita e strutturata dai rappresentanti comunemente eletti e finanziata attraverso i fondi a cui tutti i cittadini contribuiscono con il proprio lavoro. Il singolo non viene educato da un altro singolo, ma dalla comunità intera, che collettivamente stabilisce il contenuto e le modalità dei progetti educativi. Questo comporta distorsioni, imperfezioni ed enormi margini di miglioramento, ma finché sceglieremo di vivere in una comunità democratica, è compito di ognuna/o di noi rendere quel progetto educativo all’altezza delle aspettative ed in linea con la nostra realtà.
Cenni normativi: Costituzione e legge 62 del 2000
Nel 1946, gli allora membri dell’Assemblea Costituente avevano chiaramente indicato come dovesse essere strutturata la scuola pubblica, giungendo ad una definizione alquanto puntuale e di facile comprensione per i più:
“La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.“
Diciamo per i più perché gli sviluppi politici degli ultimi vent’anni ci hanno mostrato come in realtà per molti dei nostri rappresentanti la dicitura “senza oneri per lo Stato” sia e sia stata tutt’altro che cristallina. È infatti grazie a precise volontà politiche che nel marzo del 2000 il parlamento approvava la legge 62 del 2000, dove – nonostante quanto stabilito in Costituzione – venivano disposte erogazioni finanziarie cospicue a favore delle scuole paritarie, generando una delle più grandi inattuazioni costituzionali del nostro paese.
Con questa norma, il parlamento si muoveva in aperto contrasto rispetto a quanto stabilito dalla Costituzione che limpidamente indicava il diritto per l’istituzione privata di esistere, negando tuttavia qualsiasi onere per lo Stato legato alla stessa. Inclusi, ovviamente, gli oneri economici.
Gli sviluppi negli ultimi vent’anni
Sono passati quasi 23 anni dalla promulgazione di quella legge e il finanziamento statale agli istituti paritari è andato esponenzialmente aumentando da una legge di bilancio all’altra. Al contempo, i fondi per l’istruzione pubblica sono spesso andati diminuendo.
Si potrebbe pensare che finanziamenti di questo tipo siano imputabili principalmente ad un certo orientamento politico, vicino ad un ceto benestante disposto a pagare l’istruzione dei propri figli purché coincida con i valori promulgati all’interno del nucleo familiare (non sbagliato, in principio, ma indubbiamente lontano dal concetto di collettività e di democrazia). Eppure, nel corso degli anni vi è stata grande continuità nei fondi erogati, indipendentemente dal colore politico del partito al governo. Se nel 2012 i fondi erogati a favore degli enti privati si aggiravano sui 280 milioni annui, nel 2017 i fondi stanziati sono stati 500 milioni, ulteriormente aumentati durante il governo Draghi.
È in questa traiettoria che si inserisce la recente legge di bilancio del governo Meloni, la quale, come annunciato in campagna elettorale, contribuisce ulteriormente al finanziamento degli istituti paritari, considerandoli una risorsa primaria in ottica di garanzia di una completa libertà di insegnamento. Per questi istituti, in totale si prevede una spesa di 646 milioni di euro per il 2023, 2024 e 2025 (Orizzonte Scuola).
Le ragioni del finanziamento agli istituti paritari
Con l’applicazione della legge 62 del 2000, si è andato sviluppando un meccanismo autoalimentante per cui le scuole paritarie si rivelavano una soluzione più conveniente per lo Stato, che esternalizzava così l’educazione dei propri cittadini al privato più conveniente. La ragione dietro questi finanziamenti è purtroppo banale, e in piena linearità con una logica imprenditoriale di mercato: costa meno. Un alunno iscritto presso una scuola pubblica costa in media allo Stato 6.000 € quando frequenta la scuola dell’infanzia, e circa 7.500 € durante la scuola secondaria di II grado (cifre ovviamente tra le più basse d’Europa). Un’alunna invece iscritta presso una scuola paritaria ha un costo molto minore per lo Stato, circa 500/800 € all’anno (Orizzonte scuola). Il dato indica un’enorme differenza tra le due cifre, ed evidenzia quanto sia conveniente per lo Stato sovvenzionare istituti privati, a loro volta sovvenzionati da altri Enti, piuttosto che realizzare seri piani di investimento nella scuola pubblica.
Questo senza nulla togliere alla validità dell’offerta formativa paritaria, che, per quanto possa essere eccellente, rappresenterà sempre un fallimento dell’azione pubblica. Infatti, quest’ultima ha scelto (forse nemmeno troppo consapevolmente) di delegare ad un singolo (ente religioso, associazione etc.) l’istruzione dei propri cittadini, esternalizzando per ragioni meramente economiche uno dei compiti principali di una comunità.
Finanziamenti in aumento nonostante la crisi di iscrizioni
Il notevole aumento dei finanziamenti agli istituti paritari portato avanti dal Governo Meloni e convintamente sostenuto dall’attuale ministro dell’Istruzione Valditara sembra inoltre non trovare giustificazione nei numeri di studenti effettivamente iscritti in questi istituti.
Come sottolineato da Repubblica, “Nel corso dell’anno scolastico 2021/2022, le scuole non statali hanno accolto 817 mila e 400 iscritti. Cinque anni prima, nel 2016/2017 erano quasi 904 mila e dieci anni prima superavano il milione. In pochissimi anni le paritarie hanno visto crollare il numero degli iscritti con l’inevitabile strascico di chiusure”.
Perché dunque scegliere di aumentare il finanziamento pubblico agli enti privati quando le iscrizioni sono in costante diminuzione? Parrebbe quasi un incentivo per non dover fronteggiare i problemi strutturali di cui soffre la scuola pubblica italiana, rimediando alle carenze e ai disfunzionamenti statali attraverso sostegni e borse di studio per le famiglie meno abbienti che vogliano offrire un’istruzione paritaria ai propri figli. Questa tuttavia è purtroppo la logica che conduce, nel tempo, allo smantellamento della scuola pubblica, definanziata e svuotata delle proprie potenzialità.
Cosa resta della scuola pubblica?
Intendiamoci, la critica qui non viene mossa ai gestori degli istituti paritari o a chi in essi lavora, promuovendo metodi educativi di ottima qualità e garantendo un servizio spesse volte migliore. La critica, in questo caso, è direttamente rivolta ad uno Stato che, oltre ad agire in contrasto con la Costituzione, si rivela incapace di cogliere la centralità dell’istruzione e la necessità di strutturare un sistema educativo pubblico che sia il migliore possibile, innovativo e molteplice.
Secondo quanto stabilito nella legge di bilancio 2022, alla scuola pubblica non spetta altro che il cosiddetto “dimensionamento”: un piano per l’aggregazione, la fusione e la soppressione degli istituti, al fine di renderli più efficienti, alias meno costosi.
Eppure, ciò che questo ennesimo governo non sembra comprendere è che l’investimento nell’istruzione pubblica resta la migliore scelta strategica che una società che voglia definirsi tale possa compiere.