In un precedente articolo ho scritto di come la manipolazione efficace di ciò che ci circonda – da semplici schizzi su un block-notes fino ai software più complessi– sia un’abilità la cui padronanza può essere sufficiente a trasformare uno studente mediocre in uno studente modello. Ciò avviene – si diceva – perché l’uso di supporti esterni permette di trasferire su di essi parte del lavoro che altrimenti impegnerebbe la mente. Come conseguenza diretta risulta che il modo in cui pensiamo non è indipendente dai mezzi che usiamo per farlo. Cambiare i mezzi quindi porta inevitabilmente a dei cambiamenti nelle competenze, nel modo di agire e pensare.
Eccoci allora al punto della questione: come deve essere ripensata la scuola, in particolare la scuola dell’infanzia e primaria, per adattarsi al cambiamento tecnologico degli ultimi anni (in primo luogo la diffusione degli smartphones)? È necessario aprirsi completamente al nuovo e sperimentare o è meglio procedere con prudenza, dato che parte dell’impatto delle nuove tecnologie sullo sviluppo emotivo e cognitivo – anche limitandoci al contesto scolastico che qui ci interessa – potrebbe essere visibile solo sul lungo termine?
Se la storia dell’uomo può essere letta come la storia di un raffinamento progressivo dei mezzi da esso impiegato, dal fuoco fino al portatile, questa è anche una storia fatta di inciampi e vicoli ciechi. Si aggiunga a queste considerazioni la necessità per la scuola di saper fare i conti con un mondo, quello lavorativo ma non solo, sempre più distante dal modello di società per cui è stata pensata.
Insomma, un vespaio. Così è quando si entra in questioni di policy making, quando cioè la scientificità degli studi e l’evidenza statistica viene ad interagire con il mondo dei valori, delle scelte e degli obbiettivi il cui perseguimento porta all’esclusione di altre possibilità.
Eppure una scelta, sia a livello politico che da parte dei singoli insegnanti, deve essere presa. Come spesso accade la via migliore pare essere quella del giusto equilibrio tra i due poli: ci sono numerosi studi che mostrano un legame tra la sovraesposizione a dispositivi tecnologici come pc, tablet e smartphones soprattutto tra i più piccoli e una serie di problematiche quali mal di testa e occhi irritati, problemi di concentrazione e a socializzare. Nel dubbio sia Bill Gates sia Steve Jobs hanno dichiarato di limitare l’accesso dei figli a strumenti tecnologici. Al contempo però il successo di questi dispositivi è dovuto anche ad enormi benefici che già diamo per scontati, ma che se visti da una prospettiva un po’ più ampia lasciano sbalorditi. Una rivoluzione in termini di connettività, velocità con cui si propaga l’informazione e possibilità di consultare fonti e verificare fatti, se vogliamo limitarci ad un paio di esempi.
Il giusto equilibrio può essere trovato forse proprio grazie alla scuola. D’altronde quale altra istituzione può essere – almeno in linea di principio – più adatta ad educare le persone di questa? È però necessario cambiare il modo di guardare al problema: il punto non è tanto capire se la scuola debba implementare l’uso di nuove tecnologie, come, e in che misura. Pc e web sono venuti per restare: si tratta di capire come conviverci.
Il punto è comprendere che la scuola deve per prima cosa sapere educare al loro corretto uso, e non tanto nel senso di insegnare ad usarli efficacemente, quanto ad usarli bene. Evitando abusi, eccessi e dipendenze che essi possono facilmente generare.
[immagine tratta da google images]
Francesco Fanti Rovetta