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ASL: innoviamo o ci fermiamo qui?

Di Emanuele Lepore

Il Documento di Economia e Finanza 2018, alla terza sezione, presentava il Piano Nazionale di Riforma: tra le questioni affrontate, anche quelle relative al lavoro e all’istruzione. Particolarmente interessanti sono i riferimenti all’intersezione tra questi due mondi, la connessione tra i quali è ricercata dal dispositivo didattico dell’Alternanza Scuola-Lavoro. Oltre a prevedere sgravi per le aziende che ospitino studenti delle scuole secondarie di secondo grado, è annunciata una riflessione sulla possibilità di riformarla: da obbligatorie, le ore di formazione presso le aziende, dovrebbero diventare facoltative. Sarà da vedere cosa, del PNR presentato dal precedene governo, sarà conservato o cosa sarà modificato, in materia.

Sulla bontà di questo dispositivo didattico si sono sollevate voci di segno opposto, non solo di esperti: non sono mancate proteste, da parte degli studenti, che lamentavano la poca coerenza dei progetti proposti.

A prescindere dai singoli progetti offerti agli studenti, la cui bontà dovrebbe sempre essere vagliata da docenti e dirigenti, è opportuno dire alcune cose, per chiarire cosa sia (e cosa può essere) un percorso di alternanza scuola-lavoro. Anzitutto è opportuno ricordare che non si tratta di un’invenzione italiana: Germania, Francia e Inghilterra (tra gli altri) puntano da diversi anni su questo doppio binario di formazione.

Ma qual è l’utilità di quest’alternanza? Perché gli studenti dovrebbero “distrarsi dai programmi” per lavorare? È proprio necessario che la scuola produca forza lavoro pronta per essere inquadrata nelle varie aziende, con tutti i problemi relativi alle assunzioni, alle condizioni di lavoro?

Può essere opportuno ricordare che ci sono due vie per mettere in comunicazione la scuola e il mercato del lavoro: il primo, che è il vero bersaglio delle polemiche, vede l’offerta formativa plasmarsi in vista del mercato. Lo spirito di questo modo d’intendere l’alternanza inverte i rapporti di forza: la formazione avviene perché si possano soddisfare le richieste del mercato, perché si possa essere più “impiegabili”.

In una democrazia liberale con una Carta Costituzionale come la nostra, l’ordine va semplicemente invertito – ecco il secondo modo d’intendere l’alternanza– : la formazione prepara la persona a vivere autonomamente nel mercato del lavoro, dà a ciascuno i mezzi per orientarsi in una realtà complessa. Significa, in fondo, ammettere che anche il mercato del lavoro richiede di essere formato a sua volta: in questo caso, di aprirsi all’esperienza scolastica e viverne le esigenze. Il lavoro, su cui è fondata la nostra Repubblica democratica, è una delle attività più rilevanti della persona che, così, dà corpo alla propria socialità. Lavorare non è, infatti, un’azione individuale ma una pratica sociale per i suoi esiti e per il suo significato.

 

Se è vero che molti progetti prevedono l’inserimento di studenti nella filiera lavorativa senza occasione di formazione, proporre percorsi di alternanza in cui siano salvaguardati entrambi i momenti, quello della formazione e quello del lavoro diventa un dovere civico. Formare lavoratori, persone che siano in grado di entrare nelle dinamiche del lavoro in piena autonomia, significa formare cittadini liberi.

 

Non si tratta di ritagliare studenti a misura del mercato ma di formare persone consapevoli che, per forza di cose, dovranno relazionarsi con il lavoro e le sue esigenze, essendo in grado di farsi portatrici delle loro proprie esigenze, delle proprie idee.

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