School of Innovation: l’Università deve prepararci al futuro

Nel piano strategico di ogni Università capace di trattare i punti critici della società, dell’economia, del lavoro e dell’educazione negli anni Venti del nuovo Millennio dovrebbe essere inclusa una proposta formativa come quella di cui tratto in questa circostanza: una scuola, parte integrante ed integrata della tradizionale didattica, che tratti a trecentosessanta gradi di innovazione.

Centinaia di teorie sui processi innovativi si sono susseguite negli ultimi cinquant’anni, in quella trasformazione culturale, sociale e tecnologica che ha plasmato il mondo come oggi lo conosciamo: un mondo fatto di piattaforme, di Internet of Things, di Advanced Manufacturing, di stampanti 4D, di Start-up, di Big Data, di Information System Technology, di Wearables… (se qualcuna di queste parole non vi è familiare, consiglio un più che rapido aggiornamento perché il futuro è questo e non si scappa). La cosa meravigliosa è che l’elenco non si esaurirebbe nemmeno volendo provare ad esaurirlo – l’innovazione può essere pensata come l’Universo della mente umana, in continua espansione. La metafora prosegue più o meno così: il processo di creazione e distruzione non ha mai fine e ogni parte deve adattarsi al contesto, trovare il posto giusto in cui sopravvivere e generare nuova innovazione. Da cosa nasce cosa, in radicale contrasto o in parziale continuità. Questo è d’altronde facilmente intuibile se si connettono i punti e si pensa che l’innovazione è un prodotto del processo di espansione della conoscenza, sia essa tacita o esplicita. Entrambe si nutrono l’una dell’altra e esse stesse da sole, non essendo mai sazie.

Tutto molto bello, vero? Io credo di sì. Ma. Ma bisogna sapere sopravvivere in questo mondo, sapersi costruire il proprio futuro e avere gli strumenti per navigare nel mare di conoscenza disponibile più vasto della storia umana.

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Figura 1: espansione dell’universo dei dati 2013-2020. Nel 2020 l’universo digitale raggiungerà 44 zettabyte. Uno zettabyte equivale a un milione di terabytes. I dati e le informazioni, quindi la conoscenza, stanno crescendo esponenzialmente ogni secondo in termini relativi ed assoluti (fonte: Deloitte).

Un mare in cui per non annegare è necessario abbandonare il pensiero verticale e approdare al pensiero laterale. Un mare in cui si deve essere creativi e innovatori, in cui è necessario capire che ognuno può avere un’idea rivoluzionaria, anche se non tutti siamo nati con uno spiccato animo imprenditoriale o non ci consideriamo creativi per natura.

Chi non ricade in queste due categorie ha tutte le possibilità di successo di questo mondo: basta studiare, leggere tantissimo, essere curiosi e consapevoli.

A supporto di queste qualità, cosa ci potrebbe essere meglio di una Scuola ad hoc, che offra metodologie comprovate, possibilità pratiche, opportunità di fare network, spunti e conoscenza su temi recenti e controversi, multidisciplinarietà, libertà, flessibilità, interculturalità, in sintesi il bagaglio di competenze fondamentali sia in termini intellettuali che professionali?

Ecco, un tentativo del genere esiste. È una scuola gratuita. Quaranta studenti vengono selezionati ogni anno per parteciparvi e io vi racconto la sua storia perché sono parte di loro.

La School of Innovation dell’Università di Trento nasce perché i rapidi cambiamenti tecnologici e sociali che caratterizzano il presente richiedono al settore privato e pubblico di adattare in maniera continuativa il loro funzionamento, le loro abitudini e le soluzioni applicate. Nuove competenze sono richieste ai professionisti di oggi e ancora di più di domani a causa dello sviluppo di diversi processi di produzione e delle piattaforme digitale. Il problema è che l’istituzione universitaria e l’approccio alla didattica è spesso limitato in questo campo: questo si riflette in una chiara inappropriatezza nell’affrontare sia i cambiamenti scientifici e tecnologici che le trasformazioni delle professioni e delle strutture organizzative.

È appunto per arricchire l’offerta accademica e sopperire alle già menzionate pecche strutturali che qui a Trento, ormai tre anni fa, è stata pensata e sviluppata all’interno del piano strategico una struttura interdipartimentale che si occupa di innovazione. Questa struttura è migliorata ed è oggi una vera e propria Scuola dell’Innovazione, che mira ad ampliare i programmi universitari stimolando, attraverso approcci innovativi e creativi, idee e soluzioni negli ambiti disciplinari più disparati.

Questo approccio originale è implementato attraverso l’offerta di un menù à la carte di corsi, prevalentemente serali, che vanno a completare la formazione didattica tradizionale, distanziandosi però da questa per la minore durata (un corso dura di solito dalle 6 alle 12 ore), per l’ambiente (l’intera SoI si tiene presso il Contamination Lab di Trento, una struttura innovativa, open-space, facilmente fruibile nelle maniere più disparate, un ambiente costruito per essere stimolante e flessibile, per cambiare configurazione e per ospitare un gran numero di persone senza risultare mai dispersivo), e per l’approccio laboratoriale, pratico, interattivo e professionalizzante.

Corsi come “How to be a better speaker: golden rules”, “Personal Branding”, “Theater teaches innovation”, “Multicultural Negotiations” si alternano a serie di conferenze con esperti in ambiti come Fintech, Blockchain, Intellectual Property Rights, Big Data ed Economia Circolare. Attraverso l’esperienza di imprenditori famosi si imparano i pregi del fallimento in “That’s my life”, attraverso esperti di etica si discutono gli effetti collaterali dell’intelligenza artificiale, attraverso coaches e mentors si impara ad approdare sul mercato grazie al corso “Go to Market” o le migliori strategie per prendere decisioni. Nel paniere non mancano anche corsi che rispondono perfettamente ai bisogni di chi si inserisce per la prima volta nel mercato del lavoro: come costruire un Business Model, come stabilire alleanze, come sviluppare il proprio brand o come organizzare un perfetto knowledge management system in una impresa.

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Figura 2: la percentuale di spesa per ricerca e sviluppo in Italia è visibilmente più bassa della media europea, con un valore di circa 1,35% del PIL. Al pari della spesa italiana ci sono quella ungherese, portoghese e spagnola.
(fonte: Eurostat, Gennaio 2019)

È chiaro che questo è un investimento da parte del sistema universitario, che in Italia certo non brilla in quanto a ricerca e sviluppo (vedi figura precedente). È chiaro anche che i risultati possono essere poco percepibili in termini tradizionalmente accademici. È palese che il progetto sia gestibile molto più facilmente in un Ateneo medio piccolo come questo, per di più già da tempo coinvolto in esperienze come Innovation Camp, Innovation Challenge, collaborazioni con imprese e con incubatori.

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Tabella 1: Nel settore Universitario la spesa per ricerca e sviluppo in percentuale sul totale (già abbastanza contenuto, come notato nel grafico precedente), è sostanzialmente diminuita dal 30% del 2007 al 24% del 2017. Negli altri Paesi europei, oltre ad essere in media percentualmente maggiore, è anche rimasta più o meno stabile (la parziale diminuzione è dovuta anche alla crisi finanziaria).
(fonte: Eurostat, Gennaio 2019)

Tuttavia la sfida è stata lanciata e l’attrattività di una scuola del genere è alta. Spero che altre Università italiane colgano presto il potenziale di questo piccolo laboratorio e che, come culle della conoscenza e della formazione, si prendano a cuore il difficile compito di insegnare l’innovazione, e di stimolarla.

 

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