Professore e studente ci raccontano cosa sta succedendo in Iran

Professore e studente ci raccontano cosa sta succedendo in Iran

La mattina del 3 gennaio siamo tutti stati svegliati da una notizia probabilmente destinata a cambiare lo scenario geopolitico mediorientale: l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, a capo di una importante unità militare delle Guardie della Rivoluzione. Per qualche tempo la tensione con Washington è stata così alta che alcune voci ritenevano probabile lo scoppio di un conflitto potenzialmente espanso all’intera regione, con implicazioni globali. Ad alcuni giorni di distanza, l’escalation sembra essersi fortunatamente arrestata. Siccome uno degli obiettivi di Education Around è quello di osservare i fenomeni dell’attualità con gli occhi di studenti e docenti che meglio conosco la materia, in questo articolo abbiamo intervistato un docente ed uno studente iraniani che vivono in Italia.

Pejman Abdolmohammadi, docente di origine iraniana, insegna Storia e politica del Medio Oriente all’Università di Trento. Tra le sue pubblicazioni “L’Iran contemporaneo. Le sfide interne e internazionali di un paese strategico” (Mondadori, 2015) e “Why the Islamic Republic Has Survived” (ISPI, 2019). Già Visiting Fellow presso la London School of Economics, Abdolmohammadi collabora regolarmente con l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) in qualità di Associate Research Fellow.

Reza Khabook, studente magistrale in International Security Studies presso Scuola Superiore Sant’Anna ed Università di Trento. Ha già tra le mani un diploma di Laurea Magistrale in Diritto Pubblico all’Università Shahid Beheshti di Teheran con tesi sul profilo di costituzionalità dello stato di emergenza.

Professor Abdolmohammadi, come bisogna leggere il gesto dell’uccisione del generale Soleimani? Che cosa rappresentava il generale per la Repubblica Islamica dell’Iran e come commenta le immagini di folle impressionanti alle esequie del generale?

Abdolmohammadi: Bisogna anzitutto dire che il generale Soleimani era a capo del cosiddetto Triangolo Sciita ed era quindi la figura più rilevante della politica estera iraniana. La sua uccisione fa parte di un più ampio piano strategico statunitense, che ha colpito con successo un elemento strategico dell’Iran. Inoltre essendo Soleimani visto come una figura legata all’ideologia islamica sciita, la sua uccisione è stata anche vissuta come martirio e questo ha creato una evidente commozione. Tale commozione è venuta tanto da ambienti religiosi vicini alla ideologia che egli rappresentava, quanto da chi si è sentito ferito nell’orgoglio nazionale. L’evidenza più chiara di questa commozione sono proprio le folle ai funerali del generale. Attenzione però: si tratta di una commozione soltanto temporanea. Infatti si è subito smentita con le proteste di gente che è scesa in piazza anche attaccando l’immagine del generale Soleimaini e della Guida Suprema, ritenuti responsabili delle molteplici crisi economiche e sociali del paese, e soprattutto per aver gestito in modo maldestro l’attacco all’aereo ucraino causando la morte di 176 persone. Questo dimostra una forte polarizzazione della società iraniana. Da un lato un segmento di popolazione probabilmente maggioritario ma più disorganizzato che si oppone alla Repubblica Islamica e a ciò che Soleimani rappresentava, dall’altro lato una parte forse minoritaria ma ben più organizzata che invece sostiene le politiche della Repubblica Islamica. Il futuro dell’Iran dipende da come interagiranno queste due parti della società.

Reza, qual è stata la tua prima impressione e reazione istintiva quando hai ricevuto la notizia dell’uccisione di Soleimani?

Reza: Ad essere sincero subito ero scioccato ed impaurito. Soleimani era una persona cruciale nella regione ed ha contribuito a combattere Al-Qaeda, i talebani e l’ISIS. Non sto dicendo che fosse una persona innocente, perché penso che nessuno a quei livelli sia privo di colpe. Da un punto di vista oggettivo, bisogna ammettere che lui avesse un ruolo chiave di mediazione tra vari gruppi della regione, soprattutto quelli sciiti. La prima cosa che mi è venuta in mente è il venir meno di un suo possibile ruolo di mediatore per le proteste in Iraq e Libano. Poi mi sono chiesto come l’Iran avrebbe risposto.

Professor Abdolmohammadi, da parte statunitense il gesto dell’uccisione di Soleimani va letto come azione di distrazione di massa e per ricompattare attorno al presidente l’elettorato in vista delle elezioni del 2020? O invece va collocata all’interno della strategia di politica estera sul Medio Oriente?

Abdolmohammadi: La seconda. Io sono un critico della lettura secondo cui Trump e Pompeo possano aver dato vita a questo colpo per motivi strumentali. Non penso lo abbiano fatto per ragioni di politica interna, bensì per fini strategici. C’è un paradigma nuovo della politica estera di Washington nel quadrante mediorientale, con un disegno chiaro e nuovo. In questo contesto l’uccisione di Soleimani è illegale, immorale, ma sicuramente razionale e strategica per gli USA.

Molti analisti e commentatori sottolineano il fatto che la reazione dell’Iran sia stata fin troppo aderente ai canoni della razionalità, senza misure sproporzionate. Alcuni sottolineano soprattutto il fatto che la vera risposta iraniana possa arrivare nel corso dei prossimi mesi, non solo sul proprio territorio nazionale ma anche con attenzione particolare al territorio iracheno. Qual è la sua opinione?

Abdolmohammadi: No. La reazione si è conclusa, in quanto la stessa Repubblica Islamica tramite gli organi ufficiali dei Pasdaran ha affermato che questa è stata “la dura vendetta”. Quindi non ci si aspetta, almeno sul piano formale, che l’Iran porti avanti ulteriormente la vendetta. Inoltre la narrativa è già cambiata con una velocità notevolissima. Con l’errore commesso nel colpire l’aereo, la Repubblica Islamica ha dimostrato la sua insufficienza e perso l’occasione di capitalizzare il consenso che si era formato. La vendetta sembra essere già andata in secondo piano.

Quale probabilità c’è chi si arrivi a un nuovo trattato nucleare dopo la fine del JCPOA? Accettare un nuovo trattato non significherebbe per l’Iran ammettere una sconfitta?

Abdolmohammadi: Trump gioca tre dadi. Prova il primo, prova il secondo e poi semmai cambia al terzo dado. L’amministrazione USA in questo senso non ha alcuna intenzione di arrivare a un nuovo accordo con la Repubblica Islamica.  

La risposta europea appare frammentata, scomposta e soprattutto debole rispetto alle grandi potenze in campo. Secondo lei che cosa potrebbe portare a un ricompattamento delle posizioni europee? Che cosa permetterebbe insomma all’Europa di contare qualcosa in più nei processi negoziali e di pacificazione tanto in Iran come in Libia?

Abdolmohammadi: L’UE aveva già mostrato di non avere una spina dorsale sotto la guida di Federica Mogherini (Alto Rappresentante per la Politica Estera 2014-2019, ndr). L’impotenza europea rispetto alla decisione di Trump di inasprire le relazioni con Teheran e l’incapacità di mantenere gli impegni che l’UE aveva preso con l’Iran sono un chiaro segno della sottomissione di Bruxelles alle volontà di Washington. Se quindi anche l’Europa è una ‘tigre di carta’, i veri attori sono gli Stati Uniti, la Cina ed in parte la Russia. L’Europa potrà esprimere la propria voce a livello di stati nazionali e non di Unione.

Le Nazioni Unite sembrano avere un ruolo marginale nella soluzione di questa come di altre crisi. Ci si affaccia alla fine del multilateralismo o invece è quella l’unica strada percorribile?

Abdolmohammadi: c’è senz’altro un momento di crisi del sistema universale, multilaterale, liberaldemocratico, basato sulla concertazione e sul dialogo. È un sistema che si è logorato nel corso del tempo a causa dei vizi che in esso si sono sviluppati. Basti pensare al ruolo spesso nocivo di grandi imprese multinazionali e della finanza globale. Appare inevitabile un ritorno al realismo politico e ad una centralità dello stato-nazione.

Professore, ora una domanda sul mondo accademico iraniano: qual è secondo lei il rapporto tra mondo universitario e forze governative in Iran? Sono tutti allineati alla posizione del governo o emergono voci critiche? La critica viene tollerata?

Abdolmohammadi: Il mondo universitario è da sempre vitale e vivo. Si tratta comunque di un mondo che ha subito degli  shock, come nel caso della rivoluzione culturale degli anni ’80. I protagonisti di quella fase storica sono coloro che oggi chiamiamo ‘riformisti’, che sottomisero l’intellighenzia laica secolare iraniana, accusandola di filoccidentalismo. Vi fu un impoverimento strutturale. Poi verso fine anni ’90 arrivarono nuovi movimenti e nuova linfa per il mondo accademico, in cui si distinsero alcuni importanti docenti. Ma sicuramente c’è sempre stata anche una parte di mondo universitario dirigenziale legata alla Repubblica Islamica. Le voci dissenzienti vengono comunque tollerate all’interno dell’università, che di per sé resta un luogo in cui si può criticare e discutere. Le cose cambiano se le discussioni nelle aule universitarie si trasformano in movimenti. In tal caso, come abbiamo visto, spesso la tolleranza diventa repressione.

Reza, lo chiedo anche a te: qual è la posizione del mondo accademico Iraniano e dei movimenti studenteschi rispetto ai Pasdaran ed alle forze governative? È cambiato qualcosa dopo la morte di Soleimani?

Reza: Anzitutto penso debba essere sottolineato che i movimenti studenteschi universitari hanno da sempre rivestito un ruolo fondamentale nella storia dell’Iran. La loro centralità è in primis dovuta al deficit di rappresentatività dei partiti iraniani, per la quale movimenti sociali e studenteschi sono visti come una valida alternativa. In secondo luogo tali movimenti sono un’importante rappresentanza della classe media e possono fungere da avanguardia intellettuale la classe media. Stiamo quindi parlando di un soggetto centrale nella società e nella politica dell’Iran, che però al suo interno è fortemente eterogeneo. Ritengo che l’uccisione di Soleimani possa aver accentuato la dimensione identitaria e l’antiamericanismo di chi già sosteneva i Guardiani della Rivoluzione. Ora è vero che con i fatti dell’aero ucraino abbattuto la fiducia in loro si sia nuovamente ridotta. Dopo aver scoperto che la verità era tenuta nascosta, lo scontento e la sfiducia del popolo sono ancora maggiori rispetto a prima.

Professore, come lei, sono tanti gli studiosi, i docenti, gli studenti, i lavoratori iraniano che si trovano fuori dai confini nazionali. Secondo lei il fatto di trovarsi all’estero cambia in qualche modo la prospettiva che si ha sul corso degli eventi?

Abdolmohammadi: Sicuramente è una questione che dev’essere vista caso per caso. L’accusa dei riformisti e degli apparati della Repubblica Islamica a chi sta fuori dal paese è proprio quella di non conoscere come stanno le cose. Il loro messaggio è ‘Noi siamo dentro e stiamo facendo le riforme da dentro’. In parte è vero che chi è all’estero non vivendo la quotidianità di quel paese ha meno contatto con alcune problematiche vissute dagli iraniani, ma non è detto che la sua analisi -per lo meno a livello macro- non sia lucida. Dall’altro lato chi è dentro vede le cose da vicino, ma può essere che abbia una capacità di percezione offuscata e distorta a livello macro. Si tratta di due fonti d’analisi che possono essere complementari.

Reza, cosa immagini succederà nel futuro del tuo paese?

Reza: Per risponderti penso che sia necessario dividere temporalmente gli avvenimenti in prima e dopo l’abbattimento dell’aereo ucraino. Il gesto compiuto da Trump era stato un regalo al sistema di potere della Repubblica Islamica, grazie al forte ricompattamento dell’opinione pubblica. Tuttavia l’abbattimento dell’aereo ha riportato un clima di forte sfiducia, quindi prevedo che nei prossimi mesi si susseguiranno proteste antigovernative che coinvolgeranno tanto il ceto medio quanto i ceti bassi. In questo contesto non si può dire che un piano di cambio di regime in Iran sia imprevedibile.

Da studente iraniano, quali sono le tue impressioni del sistema universitario italiano?

Reza: Studiare in Italia è per me una grande opportunità. Alcune cose mi hanno lasciato sorpreso, come il fatto di poter dare più volte lo stesso esame rifiutando il voto. Oltre a questo, ci sono molte procedure burocratiche da portare a termine, il che diventa spesso una seccatura. In generale però mi sento di dire che è un sistema universitario funzionante e di buon livello.

Che cosa ti manca di più dell’università iraniana?

Reza: Penso che il sistema universitario iraniano abbia un approccio che guarda ad avere solide basi teoriche, da cui poi si può partire per elaborare una dimensione pratica in un secondo momento. Mentre a livello internazionale e nel sistema di matrice anglosassone si tende focalizzarsi quasi esclusivamente sulla dimensione pratica. Forse mi manca l’avere un po’ di teoria in più.

Pensi che nella società gli atti discriminatori e il razzismo nei confronti degli stranieri siano una pratica diffusa?

Reza: Personalmente non ne sono mai stato vittima, ma so di amici di colore che hanno subito atti di questo tipo. All’interno dell’università è un po’ più nascosto, ma penso che in alcuni casi i docenti aiutino di più gli italiani e gli europei rispetto ai non europei. Alle volte mi sento come se mi venisse richiesto di dover fare più di altri per dimostrare di essere all’altezza, anche perché spesso c’è la presunzione che le università non occidentali non funzionino bene.

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