Una riflessione sull’abbandono universitario in Italia e in Europa

Bruxelles – non solo capitale del Belgio, ma simbolo di un processo di integrazione tra paesi europei diversi. L’Unione Europea, che lì trova tante sue articolazioni e manifestazioni, nasce e cresce con un forte desiderio di comprensione reciproca, un desiderio che si esplica in studi, analisi di fenomeni, ricerche di soluzioni a problematiche comuni e trasversali. Mi trovo a Bruxelles da qualche mese e mi è capitato di leggere il report 2015 della Commissione dal titolo Dropout and Completion in Higher Education in Europe. Risale al 2016 invece l’European Semester Thematic Factsheet riguardante il Tertiary Education Attainment. Da queste due analisi emerge come il completamento degli studi universitari sia un obiettivo tutto meno che scontato nella vita dei giovani europei: il tasso medio di completamento del percorso universitario in Unione Europea si attesterebbe infatti intorno al 39,1 %.

Ciò significa che più di 3 milioni di giovani studenti europei non completano il percorso di studi scelto. Belgio, Grecia, Francia, Italia, Ungheria, Olanda, Austria, Polonia, Romania, Slovenia sarebbero i paesi con il più alto tasso di abbandono universitario. Il 24 per centodi questi “dispersi” europei, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, ha detto addio al sogno della laurea per inserirsi nel mondo del lavoro. Gli abbandoni universitari causati da questo desiderio di trovare un impiego (il 36,8 % nel caso italiano) sono più frequenti tra gli uomini. Tra le donne, invece, a pesare sulla decisione di lasciare l’università sono ragioni di natura familiare. Sotto accusa finisce anche la mancanza di efficienza e di qualità dei sistemi universitari esistenti, oggetto di poche lungimiranti politiche di investimento pubblico. Dati preoccupanti in termini di prospettive di crescita, produttività, innovazione, competizione dell’Unione Europea nel panorama mondiale. Una preoccupazione che ha condotto la Commissione europea a rinnovare nel 2017 l’agenda sulla Higher Education, mentre con la Europe 2020 Strategy si è deciso di agire per portare al di sopra del 40 % la percentuale degli studenti europei che, tra i 30 e i 34 anni, chiudono con successo il proprio percorso di studi. Lavorare in questa direzione significa, per la Commissione, estendere e rinvigorire qualitativamente la partecipazione alla formazione universitaria. I 4 strumenti necessari a concretizzare a livello statale l’obiettivo di rivalorizzazione del titolo universitario sarebbero: accessibilità e trasparenza delle informazioni sulle opportunità formative, organizzazione di un orientamento personalizzato nella scelta, sostegno finanziario agli studenti provenienti da background socioeconomici e geografici svantaggiati, allineamento tra formazione e bisogni del mercato del lavoro.

L’Italia, secondo l’analisi fornita dalla Commissione, è al secondo posto nella classifica dei peggiori risultati universitari
europei. Il nostro paese avrebbe registrato infatti 523.900 abbandoni solo nel 2017: 289.900 da parte di studenti e
234.000 da parte di studentesse. Il tasso di laureati rimane coerentemente molto basso: raggiunge solo il 26,5% per
persone in età compresa fra i 30 e i 34 anni. Per approfondire la situazione dell’Italia in termini di successo
universitario, ritengo sia interessante analizzare i dati ricavabili dal Profilo dei Laureati, elaborato da AlmaLaurea nel
2018: la statistica si basa su 75 atenei e 280.230 laureati. Di questi ultimi, solo il 53,8 % sono definibili “laureati in
corso”, cioè poco più della metà. Mediamente uno studente italiano ha 24,6 anni al conseguimento della laurea
triennale e 27,3 al conseguimento della laurea magistrale biennale. Tanti, se si pensa che un laureato in corso
dovrebbe conseguire il primo titolo a 21/22 anni e il secondo a 23/24 anni. Insomma, ci sono circa 2 anni di margine, o
di ritardo, nell’ottenimento del titolo: mediamente una laurea triennale occupa 4,2 anni della vita di uno studente del
Bel Paese, mentre una laurea magistrale si attesta sui 2,7 anni. La media dei cosiddetti “1° anno fuori corso” sarebbe
del 23,2 %, 21,9 % durante la laurea triennale, 26,6 % per la laurea magistrale. Questa media scende con il progredire
degli studi, perché allo stesso tempo diminuisce il numero di coloro che proseguono: il “2° anno fuori corso” tocca il
9,6 % degli studenti intervistati, 9,9 % alla triennale, 7,6 % alla magistrale; il “3° anno” vede un ritardo per il 4,8 % degli
studenti, 5,1 % per i laureandi triennali, 2,8 % per i laureandi magistrali. La media si abbassa ulteriormente
considerando il “4° anno fuori corso”: la cifra è del 2,8 %, 3,1 % considerando la laurea triennale e 1,2 % per coloro che
sono in cerca di concludere la laurea magistrale. Il “5° anno fuori corso e oltre” riguarda il 6,0 % degli intervistati, ed è
più frequente durante la laurea triennale (6,1 %), rispetto alla magistrale (1,8 %).

Perché studi e studenti non vanno a braccetto, specie nei primi anni universitari, quelli della scoperta dell’università?
Cosa impedisce questa coincidenza di cammino in Italia e cosa provoca allontanamento e abbandono così diffusi?
Partiamo da un presupposto: essere studente è difficile. Innanzitutto, perché per studenti di istituti tecnici e licei la
sensazione è che iscriversi all’università sia “un dovere”. Ma non tutti hanno la forma mentis per affrontare una
formazione universitaria prettamente teorica, anzi, alcuni sarebbero più portati per una formazione pratica e tecnica,
non trovando tuttavia percorsi professionalizzanti adatti a conferire qualifiche riconosciute, stimate e valorizzate
quanto un diploma universitario. La scuola, costretta in schemi e programmi da completare, non sembra adatta a
fornire quell’orientamento che permette a un adolescente di scegliere la formazione universitaria, o non, più adatta a
lui. Come discusso in un nostro precedente articolo, il problema dell’assenza di orientamento in Italia è talmente
marcata che quasi la metà degli studenti di scuola superiore in Italia dichiarano di aver sbagliato indirizzo! Il problema
si protrae quindi fino all’università, dove capita spesso che gli abbandoni siano multipli, cioè che una stessa persona
testi le proprie capacità in più università (specialmente se si è dovuto inserire in un percorso che non corrisponde alla
sua prima scelta), fino a quando non giunga al soddisfacimento delle proprie aspettative. Ricordiamo a proposito che
un’aspettativa disattesa circa un percorso di studi causa mediamente il 27,3 % degli abbandoni universitari in Europa,
e che in Italia il 30,6 % degli studenti sceglie il corso di laurea sulla base di fattori e aspettative che potremmo definire
“culturali”, cioè un tendenziale interesse per la materia, una tradizione nazionale, o un’emulazione dei genitori,
mentre solo l’8,2 % decide di inserirsi in una facoltà per questioni e aspettative professionalizzanti.

Il pensiero di una laurea spendibile sul mercato del lavoro non è quindi spesso tra i primi in occasione della scelta
universitaria, ma le necessità economiche possono benissimo frapporsi tra un giovane e il conseguimento di un titolo,
all’inizio della propria avventura nel mondo universitario, come in corso d’opera. Decidere di studiare può voler dire
scegliere di spostarsi per la propria formazione. Importante diventa allora il tema del mantenimento dello studente
fuori sede, che pesa sulle tasche della famiglia. Teoricamente, come recita la Costituzione, anche coloro privi di mezzi
godono del diritto allo studio in ragione del reddito familiare e/o del merito. Ma l’Italia non ha un sistema capace di
rispondere a questa domanda di diritto allo studio. Oltre 17.000 studenti universitari italiani sono rimasti esclusi
quest’anno dall’assegnazione degli alloggi universitari: edilizia universitaria e legge di bilancio non sono adeguati. Nel
Lazio sono quasi 5.000 gli idonei non beneficiari (+20% degli idonei rispetto allo scorso anno), in Piemonte 4.000
(+32%). Questa emergenza alloggi è grave nei grandi centri: ci sono 4.000 studenti idonei ma non beneficiari dello
studentato a Roma, 3.800 a Torino, 2.400 a Milano, 1.700 a Catania. Decidere di studiare vuol dire scegliere di
investire sul proprio futuro e mettere tra parentesi il guadagno: si preferisce spesso non lavorare, perché si
scommette e si crede che con la propria formazione si sarà capaci di ripagare nel tempo tutti gli sforzi finanziari
sostenuti, e questo grazie a un lavoro raggiungibile solo con un titolo. Eppure, lavorare può diventare necessario.
Quando lo diventa per questioni finanziarie, il trade off tra abbandono universitario o condizione di studente
lavoratore diventa scontato: lavorare e studiare contemporaneamente è difficile, provoca ritardi, causa il fuori corso,
aumenta l’onere finanziario di una formazione inevitabilmente più lunga. Degli intervistati AlmaLaurea, il 5,5% degli
studenti triennali e l’8,2% di quelli magistrali sono considerati studenti-lavoratori, spesso con un lavoro poco collegato
alle materie oggetto di studio (lo è solo per il 20,5 % degli studenti triennali e per un 32,9 % degli studenti magistrali).

E poi, organizzazione e burocrazia. La stessa organizzazione degli esami disorienta, perché lo studio teoretico è
inserito in una struttura lasciata alla discrezione e alle tempistiche del singolo. Gli uffici didattici non hanno
abbastanza personale per seguire e rispondere a tutti i dubbi degli studenti smarriti, specie di quei giovani che
provengono da determinati contesti: non tutte le scuole locali sono uguali, non tutte forniscono la stessa preparazione
scolastica e metodologia, o la stessa professionalità del corpo docenti. Essere uno studente richiede una immensa
indipendenza e dedizione, ma prima di tutto una grande motivazione. Forse è per questo motivo che il tasso di
abbandono è tendenzialmente più alto nelle università ad accesso libero. Un alto rapporto studenti/professore riduce
la qualità dell’insegnamento e la personalizzazione dell’esperienza formativa. Ciò che diventa un mero servizio di
insegnamento provoca demotivazione. La frustrazione di rincorrere un professore, il quale nemmeno ricorda il tuo
nome tra migliaia di altri studenti, per una semplice risposta a una e-mail o per un banale ma vitale suggerimento sulla
tesi. Questa rincorsa alle attenzioni dei docenti spiega un certo grado di disaffezione nei confronti dell’università e
anche lo scarso successo dell’università online.

Di fronte a questo quadro esperienziale e alle tante suggestioni che ho riportato sopra approfondendo il tema
dell’abbandono universitario, ho provato a riflettere su alcune soluzioni e sulle problematiche che le accompagnano.
Certamente non si può ignorare lo scalpitare del giovane che non può attendere la fine degli studi per fare esperienza
di lavoro rendendosi competitivo su un mercato del lavoro caratterizzato da tanti laureati professionalmente poco
qualificati. E semplicemente non si può essere indifferenti allo studente che non ha mezzi per mantenersi negli studi e
che è obbligato a lavorare per portarli avanti. In entrambi i casi si rende necessario adattare i curricula al mercato del
lavoro, sviluppare nuove forme e nuovi tempi di apprendimento, personalizzare l’offerta didattica a seconda delle
ambizioni personali e delle esigenze professionali. Per fare ciò l’università dovrebbe avere una struttura capace di
adattarsi e comunicare con chi ne usufruisce, più flessibile, meno burocratica, meno lenta e diffidente al
cambiamento, finanziariamente accessibile attraverso gratuità, borse di studio, alloggi garantiti da politiche pubbliche
di lungo spettro, che non si fermano alla valutazione della performance universitaria per conferire finanziamenti, ma
che guardano alla costruzione di una struttura-comunità che stimoli, sostenga e metta gli studenti nelle condizioni di
affrontare e terminare con successo gli studi. L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha definito le università attori
sociali in grado di imprimere una svolta verso nuovi equilibri sostenibili nei momenti di crisi economico-politica. Nel
nostro paese però l’investimento pubblico per le università riguarda solo lo 0,3% del Pil. È troppo poco se si pensa che
la media dell’Unione europea è dello 0,7%, cioè oltre il doppio. E ci sono paesi come la Danimarca e la Germania che si
avvicinano all’1%. Ma i governi cambiano velocemente in Italia e l’instabilità impedisce politiche solide nel settore
della ricerca e della formazione. Investire in formazione significa occuparsi del personale didattico e docente,
universitario e pre-universitario, perché il rapporto tra questo e lo studente rappresenta quel non plus ultra che
accompagna, lega, fidelizza e motiva il giovane alla propria formazione. Significa anche investire in strutture,
tecnologie e materiali, perché la formazione costa, inutile nasconderlo. E a volte l’investimento economico dello
stesso studente garantisce un certo spessore e una certa garanzia all’impegno di studio assunto. Dover superare un
test d’ingresso rende la scelta del percorso più consapevole, così come cercare di mantenere e/o raggiungere una
determinata media per ottenere borse di studio che coprano anche vitto e alloggio. Il voto non può rimanere l’unico
canale di contatto e conoscenza tra università e studente: entrambi sono due realtà complesse che necessitano di
interazione. Questo incontro può avvenire solo attraverso la conoscenza reciproca e l’orientamento.

Ma siamo sicuri che le mezze giornate alle Fiere delle città universitarie, i test di autovalutazione in classe, la
(necessaria) valutazione del corpo docenti alle scuole superiori, funzionino veramente in questo senso? E se
impostassimo l’ultimo anno delle superiori diversamente? Non più incentrato principalmente sulla didattica, ma
un’occasione in cui si testino interessi, predisposizioni degli alunni, in cui si preparino selezioni, test di ingresso, in cui
si capisca come preparare un esame universitario, in cui l’approccio linguistico divenga importante, così che uno
studente possa proiettarsi direttamente all’estero. L’orientamento potrebbe prendere così la forma di un anno
prépas, un po’ sullo stile francese, ma ad accesso egalitario. Durante l’università tale orientamento non può
interrompersi: sia perché sbagliare o cambiare idea è umano, sia perché tutti passiamo fasi della vita difficili, dal punto
di vista personale, relazionale, familiare, finanziario, medico. Il sistema deve essere studente-centrico. Lo studente
non vive solo dentro una struttura mostruosa, senza testa e arti, senza cuore e sentimenti. Deve imparare a muoversi,
a conoscere referenti e persone che possono fornire risposte e competenze. Deve poter sviluppare un senso di
appartenenza e identità che permetta di superare le sfide accademiche o di viverle senza ansia, ma solo con un sano
senso di sfida. Deve essere messo nelle condizioni di sperimentare l’integrazione sociale nell’università, un obiettivo
nettamente più semplice se si contiene il numero degli studenti per classe e per anno. Ma qui si aprirebbe la
questione del numero chiuso, affascinante, egalitario e discriminatorio allo stesso tempo. Una questione complessa,
che prima o poi andrà affrontata in Italia per rendere motivante l’accesso all’università e qualitativamente alto
l’insegnamento. Il numero chiuso servirebbe anche solo per far passare l’idea che l’università è un’alternativa, una
possibilità, non è una necessità, e nemmeno un obbligo. Essa ha lo stesso valore di altre formazioni, tecniche per
esempio, la cui trasmissione e il cui accesso devono dimostrare lo stesso grado di riconoscimento sociale di
un’ammissione universitaria. L’università non si deve limitare a fornire istruzioni e nozioni, deve aiutare a far
emergere le famose cross-cutting skills: il team-working, la comunicazione, il problem-solving, la leadership. Deve
portare a ragionare, non a ripetere a pappagallo manuali. Ridiamo valore alla tesi universitaria: non rendiamola un
mero lavoro di taglia e cuci di opinioni accademiche, portiamo a sviluppare idee o eliminiamola, sostituendola con una
sorta di maturità universitaria, che testi la capacità dello studente di parlare di Fisica nelle sue varie sfaccettature e
applicazioni, o di analizzare problematiche politiche, economiche, sociali attuali alla luce degli strumenti e delle
conoscenze fornite dal corso di studi. L’università non deve avere come obiettivo quello di sfornare “30 e lode”, ma
deve sentire e vivere la missione di accompagnare i giovani alla maîtrise di una materia o di un’area disciplinare: la
verifica dell’apprendimento deve venire incontro allo studente, tramite la gestione degli esami a parziali (e a riguardo
sono grata all’Università di Forlì) e gli appelli multipli, possibilmente ogni mese.

Per concludere, è particolarmente interessante la tesi avanzata da Juan Carlos Ayala, dell’Università di La Rioja
(Spagna), nell’articolo di luglio 2018 dal titolo Academic performance of first-year university students: the influence of
resilience and engagement (in Higher Education Research & Development). L’ipotesi è che vi sia diretta proporzionalità
tra resilienza posseduta, impegno e performance universitaria di uno studente alle prese con il suo primo anno di
studi. Il termine resilienza indica, nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, in
altre parole il contrario della fragilità. Nel settore tessile, la resilienza è riferita all’attitudine dei filati a riprendere
l’aspetto originale dopo una deformazione. Nelle scienze umane, una persona è resiliente se è capace di reagire a
traumi, difficoltà, imprevisti. La resilienza è insomma una forma di adattabilità. Il termine impegno è probabilmente di
più immediata comprensione: indica l’impiego di volontà e forze al fine di compiere diligentemente qualcosa. La
combinazione di resistenza emotiva e intraprendenza, dedizione e capacità di assimilazione, aiuterebbe, secondo la
tesi, a predire la performance accademica di uno studente. Una performance già influenzata dall’appartenenza di
genere dello studente: per esempio, dai dati raccolti nello studio emerge come l’assimilazione sia una discriminante
più per il genere maschile che per quello femminile.

risultati della ricerca mostrano infine che gli studenti che
superano il primo anno di università e proseguono gli studi farebbero maggior sfoggio di vigore, resistenza psicologica,
indipendenza. Si dedurrebbe allora che l’unico modo per un’università di migliorare i risultati accademici sia misurare
e considerare criteri di ammissione resilienza e capacità di impegno. A parte la difficoltà di misurazione di due
caratteristiche personali e caratteriali che troppo sono legate a circostanze temporanee e fattori esterni (come la
presenza o assenza di ostacoli), e che a mio parere non è giusto condizionino in maniera irreversibile ambiti come
formazione e carriera, penso che una riflessione seria su resilienza e impegno vada affrontata. Ogni persona deve
essere messa nelle condizioni di sviluppare intelligenza emotiva, intraprendenza, dedizione e capacità di
apprendimento. Qualità che rendono le persone forti al di là del campo di applicazione e soprattutto consapevoli delle
proprie capacità. Sono la consapevolezza può portare a misurare in maniera realistica sogni e aspettative. E ciò
significa ripensare all’educazione primaria e secondaria, in maniera che essa fornisca gli strumenti per affrontare in
maniera adeguata ed efficiente la formazione universitaria e più in generale la vita. In altri articoli avevamo già
sostenuto quanto sia importante che la scuola assuma un vero ruolo educativo, declinato in attenzione verso la
dimensione civica ed emotiva del bambino o del ragazzo. Perché non rendere pilastro dell’università e ancor prima
della scuola la creazione di percorsi, insegnamenti, uffici e ruoli attinenti allo sviluppo di soft skills nelle cui file
troverebbero occupazione e vocazione tanti laureati in scienze umane, risorse umane, psicologia, etc.…? Non tutti
sono Ironman/woman, ma quanto sarebbe bello distribuire sapere e strumenti per costruire una strada, la propria,
per non scoraggiarsi al primo ostacolo, per non rimanere all’inizio del cammino o a metà strada?

Fonti:

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