Emergenza sanitaria: un problema di numeri?

Siamo a tutti gli effetti nel pieno di un’emergenza sanitaria globale, la più importante che la nostra generazione abbia attraversato. Qualunque sistema sanitario, di fronte ad una sfida simile, risulterebbe impreparato; i ricoveri, specialmente quelli in terapia intensiva, sono cresciuti in modo vertiginoso e, in particolare nelle zone più colpite come la Lombardia, i numeri assoluti sono così alti da riuscire a sopraffare il sistema. Cosa manca alla sanità italiana per affrontare una vera e propria crisi come questa? C’è ancora chi dice che in Italia manchino i medici, ma la verità, in questo momento, è un’altra.

Facciamo un passo indietro, per capire.

Ogni anno qualche forza politica propone l’abolizione del famigerato test di medicina, che permette ogni anno l’ingresso al corso di studi a circa un partecipante al test su sette. La carenza di personale sanitario nelle strutture ospedaliere è un problema vero e sotto gli occhi di tutti: medici, infermieri e OSS sono sovraccaricati di turni e di lavoro. Togliere il numero chiuso a medicina sembrerebbe una buona soluzione per far fronte a questa situazione. Nel 2019 questa proposta è addirittura diventata disegno di legge (la data del test è nel frattempo stata confermata per l’anno 2020). Ma se questo venisse approvato, ci sarebbero più medici negli ospedali? La risposta è no. Cerchiamo di chiarire il perché.

Fino a metà dello scorso marzo, dopo aver completato il suo percorso di studi in Medicina e Chirurgia, un giovane neolaureato avrebbe dovuto affrontare due ulteriori esami: l’esame di Stato, necessario per l’abilitazione alla professione, e il test di ammissione alla specializzazione (o in alternativa al corso di formazione in medicina generale), che introduce il medico nella seconda metà del suo percorso formativo. L’esame di stato avrebbe compreso una prova pratica, il tirocinio pratico valutativo (diviso in tre blocchi da 100 ore l’uno da svolgere in tre mesi, rispettivamente in un reparto medico, un reparto chirurgico e in un ambulatorio di medicina generale), e una prova teorica – un esame con domande a crocette. Il medico neoabilitato ma non ancora specializzato né inserito in un corso di formazione specialistica può entrare nel mondo del lavoro, ma ricoprendo solo determinati ruoli. Per fare alcuni esempi: un medico non specialista può sostituire per brevi periodi un medico di medicina generale, può lavorare in strutture di continuità assistenziale (ex guardie mediche) o, in ambito privato, in case di riabilitazione e cura, ma non può lavorare in un reparto specialistico.

Cosa cambia, ora?

Il decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 ha cambiato qualcosa nel percorso formativo dei futuri medici italiani, eliminando l’esame di Stato e rendendo così la laurea in Medicina e Chirurgia una laurea “abilitante” (articolo 102). In realtà è stata rimossa solo la prova teorica, mentre i tre mesi di tirocinio erano stati integrati già per l’anno accademico 2019/2020 nella proposta formativa del corso di studi di molti atenei. Nella pratica, cosa cambia? È stato rimosso un test a crocette, le cui domande erano da anni pescate dallo stesso database; molti sostenevano da tempo che l’esame di Stato fosse solo una formalità e andasse rimosso. C’è invece chi sostiene che fosse una tappa importante tra la fine del percorso universitario e l’ingresso nel mondo del lavoro, e che toglierlo sminuisca l’importanza degli Ordini dei Medici. In ogni caso, d’ora in poi chi si laurea in Medicina e Chirurgia è automaticamente abilitato alla professione, proprio come avveniva già da tempo anche per le altre professioni sanitarie.

La questione dell’imbuto formativo.

Il vero problema riguarda però il test di ammissione alle specializzazioni, per il quale, al momento, è stato fatto ben poco. Si tratta del cosiddetto “imbuto formativo”, per cui migliaia di medici ogni anno non riescono ad accedere ai corsi di formazione specialistica. Il numero di borse erogate ogni anno dallo Stato e, in minima parte, dalle Regioni, non è sufficiente ad assorbire tutti i medici laureati e abilitati. L’entità di questo divario è piuttosto significativa; nel 2019, per più di 18.000 partecipanti al test, erano disponibili 8905 borse. Questo significa che più della metà dei medici (detti “camici grigi”) non ha avuto accesso ad una specializzazione, ed è rimasta in una sorta di limbo in cui le opportunità lavorative sono limitate. Per quanto negli ultimi anni il numero di borse erogate sia stato effettivamente aumentato (nel 2018 erano meno di 7000), questo non è sufficiente a riassorbire l’imbuto formativo, anche perché chi non ha ottenuto una borsa quasi sicuramente riproverà il test l’anno successivo, e così, anno dopo anno, i candidati tendono ad accumularsi.

È chiaro quindi che togliere il test d’ingresso alla facoltà di Medicina non farebbe altro che aggravare il problema, incrementando il numero di medici che restano bloccati nell’imbuto formativo e non porterebbe alcun vantaggio dal punto di vista della disponibilità di medici specialisti, che sono le figure realmente necessarie in questo momento.

Dove dovremmo andare?

È fondamentale invece che il numero delle borse di specializzazione venga aumentato ulteriormente. In una bozza del decreto di cui sopra, compariva un emendamento che doveva aggiungere 5000 borse in più per l’anno 2020; ma poi, chissà come, queste borse sono sparite dal decreto che è stato effettivamente emesso il 17 marzo. È chiaro che l’effetto dell’aggiunta di eventuali borse si sentirà solo tra 4 o 5 anni (la durata di un corso di specializzazione), ma è proprio per questo che bisognerebbe agire subito, senza perdersi in politiche miopi, perché non c’è modo di ottenere una risoluzione immediata del problema. Sono manovre che certamente non servono per affrontare la presente emergenza, ma che dovrebbero rientrare in un progetto più ampio di potenziamento del sistema sanitario nazionale nel lungo termine. Forse ora, in un momento in cui tutti siamo in qualche modo sensibilizzati al problema, è davvero il momento giusto per cambiare le cose.

La specializzazione è un percorso di formazione fondamentale per il giovane medico; i sei anni di percorso universitario non bastano per raggiungere quella competenza ed esperienza che è imprescindibile avere quando si lavora in ambiente ospedaliero, a contatto con le persone. Le scuole di specializzazione rappresentano uno strano animale mitologico, a metà tra università e lavoro, e forse per questo l’inizio della seconda fase della formazione medica, una volta terminato il percorso universitario, non è lineare né automatica. Ma è chiaro che si tratta di un grande spreco, sia per via di quei medici che “fuggono” all’estero alla ricerca di opportunità, sia per tutti i “camici grigi”, impossibilitati a portare a termine un percorso già avviato.

A livello internazionale si sono trovate soluzioni differenti. In alcuni Paesi, l’accesso alla specializzazione è preceduto da un colloquio, in altri, come in Italia, da un concorso nazionale. Spesso però, il numero dei posti è equivalente (o molto vicino) al numero dei candidati; così chi ottiene un punteggio più alto può entrare nella propria prima scelta, ma nessuno resta senza una borsa. In questo modo si va a ridurre molto il problema dei “camici grigi”.

Forse dovremmo smettere di ascoltare chi ci promette di abolire il test di ammissione a Medicina e concentrarci su altri problemi che riguardano il percorso formativo dei giovani medici. Rendere più fluido il rapporto che lega università, scuole di specializzazione e mondo del lavoro potrebbe essere un buon inizio.

Fonti e risorse:

Immagine di copertina:
Gaspare Traversi, Il ferito, olio su tela, 1752



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