La questione del gender gap, già tematizzata in precedenti articoli, ancora oggi si trova a dover affrontare in maniera separata e oppositiva le tematiche politiche, sociali ed economiche in primo piano. Il carattere è quello dell’interrogazione ex-post che in sé racchiude già un problema di equilibrio culturale nei comportamenti e nelle trattazioni quotidiane. Per questo l’oggetto economico che intendo presentare in questo articolo vuol dimostrare la necessità di una attenzione al genere alla base di politiche e politiche economiche. Si tratta del gender budgeting , ovvero una rilettura dei bilanci secondo una redistribuzione delle risorse a favore di un’uguaglianza di genere. Tale strumento di rendicontazione rappresenterebbe un passo in avanti verso le pari opportunità. Vediamo ora le motivazioni e le implicazioni di questa proposta finanziaria nei bilanci dei governi dell’Unione Europea (si veda ad esempio l’intervista a Simona Scarpaleggia, CEO di Ikea Svizzera e membro della High Level Panel dell’ONU sull’empowerment economico delle donne).
Equilibrio sociale ed equilibrio economico
Questa proposta di carattere welfaristico non è da considerarsi isolata bensì in stretta relazione con politiche indirizzate all’uguaglianza di genere. Difatti, prendendo per esempio la questione del congedo parentale per i padri, vi sono degli ostacoli socio-culturali ma anche economici che minano seriamente tale politica. Il pericolo è dare per scontata l’applicabilità di questa misura non tenendo conto del contesto diseguale dal punto di vista del genere, ove vi è ancora una difficoltà reale per le donne ad entrare nel mercato del lavoro ma soprattutto ad essere portatrici di un reddito che dia stabilità al nucleo familiare. Annalisa Rosselli a tal proposito scrive «[…] uno dei grandi ostacoli alla richiesta di congedo da parte dei padri è la perdita per la famiglia di una parte della fonte principale di reddito che è generalmente lo stipendio maschile». Proprio in tale affermazione viene identificata una delle cause della non totale adesione dei padri al congedo.
«Gli ultimi dati disponibili», continua «Rosselli, ci dicono che nel 2017, quando i giorni di congedo di paternità obbligatori erano due, ne hanno usufruito 107mila padri, un numero che non corrisponde nemmeno a un quarto delle nascite di quell’anno e quindi probabilmente molto inferiore a quello dei padri che ne avrebbero avuto diritto».
La possibilità per un padre, dunque, di accettare un congedo incontra l’influenza del mercato del lavoro femminile che vede delle disuguaglianze in termini di posizione lavorativa – le donne ricoprono posizioni prevalentemente operative – e di retribuzione secondo il gender pay-gap (A. Tonarelli, M. L. Vallauri, 2019). La questione della posizione lavorativa risulta essere più chiara considerando l’esempio dell’occupazione in relazione alla digitalizzazione. Infatti se si tiene conto della maggioranza femminile nei ruoli operativi e del relativo rischio di essere colpiti dall’automazione possiamo prevedere un’incertezza e una squalifica dell’occupazione secondo una disuguaglianza di genere (E. Pili, 2018, Ingenere.it).
Pertanto già questo blocco d’occupazione femminile è da considerarsi a rischio con una conseguente instabilità dal punto di vista del reddito e una necessità di una controparte – il partner maschile per esempio – che possa dare garanzie economiche. Tutto ciò, per questa popolazione lavorativa, si tradurrebbe in un’esclusione della possibilità di un congedo per i padri. Per questo motivo la questione dei congedi di paternità deve essere trattata in relazione alla condizione femminile. Secondo Annalisa Rosselli i congedi sono identificati come possibile politica di riequilibrazione del mercato del lavoro consentendo una maggior presenza delle donne (A. Rosselli, 2018 Ingenere.it). In questa prospettiva che stiamo assumendo, invece, è da considerare sì il valore e l’incentivo del congedo di paternità ma dopo un investimento e una preventiva riequilibrazione del mercato per dar stabilità alla donna e rendere efficace e richiesto il congedo per i padri. La problematica, come si intuisce, è già complessa e richiama ad un circolo vizioso di cause ed effetti
Il gender budgeting può creare un effetto domino?
Istituire, allora, un gender budgeting può essere una misura di contrasto alle disuguaglianze di genere cercando di intervenire sulla condizione lavorativa femminile e svincolandola dall’essere causa di una riproduzione di una situazione famigliare diseguale per reddito e potere all’interno del mercato del lavoro, riproponendo dunque il paradigma del male bread-winner e dunque, a rigor di logica, squalificando la figura maschile dal lavoro di cura. La possibilità di destinare tale fondo vede dunque delle motivazioni direttamente economiche ma indirettamente culturali. Ebbene da un sostegno all’economia femminile e al consolidarsi di un reddito femminile – partendo da una retribuzione eguale alle risorse umane maschili – vi potranno essere conseguenze culturali quali l’incentivare i padri a usufruire del congedo parentale e contribuire al lavoro di cura nonché contribuire all’ambito educativo e familiare. Tutto ciò favorirebbe la figura della donna all’interno del mercato del lavoro, o meglio la stabilizzerebbe anche nei momenti di crisi e di transizione come nel caso della maternità che, secondo una visione stereotipata, squalifica la donna immaginando il costo del lavoro di cura a suo esclusivo carico.
Promuovendo questa riequilibrazione del mercato si attua un cambiamento che considero diverso dall’introduzione di quote di genere, come nel caso dei CdA, ma agendo direttamente sulla cultura e il clima organizzativo al quale contribuiranno anche le donne. Un esempio ci è offerto dal caso di Ikea Svizzera che ha raggiunto la parità di genere senza le quote (E. Pili, 2018, Ingenere.it). Favorire un clima organizzativo attento al genere, dunque, potrebbe essere una soluzione a misure che potrebbero proporre – secondo le critiche contro le quote rosa – una disuguaglianza al contrario. Inoltre il confronto con quelli che sono definiti unconscious bias, ovvero pregiudizi e stereotipi inconsci, si avrebbe non mediante una formazione sistematizzata in senso verticale – che potrebbe generare l’effetto opposto a quello desiderato – bensì attraverso la quotidianità e il rendere istituzione una cultura organizzativa equilibrata.
L’esito di questa auspicabile cultura organizzativa aprirebbe ad una giustizia socio-economica femminile e un recupero di un’organizzazione familiare democratica oltre l’autoritarismo o la divisione dei ruoli per genere considerando la partecipazione dei padri allo sviluppo dei figli, con anche dei miglioramenti nelle performance scolastiche.
Chi ci guadagnerebbe dal gender budgeting?
In conclusione l’elemento fondamentale, a mio avviso, sta nelle basi strutturali della politica economica. Ciò non vuol dire limitarsi al mero economicismo ma rivolgere la propria attenzione a quell’intreccio che si forma tra economia e cultura. La proposta del gender budgeting terrebbe conto della condizione di disuguaglianza su cui sono fondati gli attuali bilanci – già di per loro in crisi nel caso italiano – e in vista di una loro revisione. Il problema, dunque, è principalmente culturale ma la soluzione non può essere esclusivamente culturale e deve appoggiarsi ad un investimento che riassesti il quadro economico femminile. Gli stessi esiti che si potrebbero avere dall’uguaglianza di genere e da un mercato del lavoro femminile tutelato che sia fonte di opportunità tanto quanto quello maschile, presentano delle possibilità di un empowerment economico. Difatti se le misure di contrasto alle disuguaglianze possono trovare delle critiche disinformate riguardanti la possibilità di una perdita dal punto di vista dello sviluppo e della produzione (considerando l’esempio delle quote rosa che costringono a ruoli di alta responsabilità figure – femminili – nuove e magari inesperte) vi sono dei report che mostrano il contrario, ovvero che «c’è una chiara evidenza che l’empowerment economico delle donne porta a una crescita del prodotto interno lordo e a un miglioramento delle condizioni sociali generali, in tutti i paesi, anche a diversi livelli di sviluppo» (E. Pili, 2018, Ingenere.it). La questione quindi risulta cruciale secondo diversi fattori quali lo sviluppo economico, la parità di genere, la crescita e il miglioramento culturale sul quale possono essere fondate delle politiche come quelle del congedo di paternità che altrimenti vedrebbe la sua applicazione in un contesto miope davanti a tali possibilità.
Bilancio di genere o bilancio politico
Il costo, in questo panorama economico ivi presentato, sembra poter essere uno dei problemi non posti in sede di valutazione. Eppure il calcolo proposto da Rosselli solamente per il passaggio da 10 giorni a due mesi di congedo di paternità obbligatorio si stimano, approssimativamente, tra gli 800 milioni e il miliardo di euro, il quale è sottolineato dalla stessa autrice come meno costoso della riforma sulle pensioni quota 100 (A. Rosselli, 2018, Ingenere.it). La copertura per manovre più ampie, non più ritardabili in un paese civile e democratico, come il gender budgeting non mancherebbe neanche considerando politiche welfaristiche di stampo socialdemocratico – secondo un binomio redistribuzione-lotta all’evasione fiscale – proprie di paesi che tali possibilità relative al genere e alla dimensione familiare le hanno già intuite.
Un ringraziamento, per il materiale e per il corso di Sociologia del Welfare, a Rossella Ghigi professoressa dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna.
Immagine di copertina: Mariarosa Dalla Costa e Leopoldina Fortunati Copyright: https://www.viewpointmag.com/2013/09/15/learning-to-struggle-my-story-between-workerism-and-feminism/
FONTI
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/sjoe.12113
http://www.ingenere.it/articoli/diversita-inclusione-che-direzione-stiamo-andando
http://www.ingenere.it/articoli/che-punto-siamo-politiche-genere-scarpaleggia
http://www.ingenere.it/articoli/perche-servono-i-congedi-di-paternita
http://www.ingenere.it/articoli/un-miliardo-speso-bene
A. Tonarelli, M. L. Vallauri, Povertà femminile e diritto delle donne al lavoro, Il Mulino – Riviste Web, Lavoro e diritto (ISSN 1120-947X) Fascicolo 1, inverno 2019.