Dottorato e pandemia

Il pathei mathos come rimedio per sottrarsi alla dittatura dell’efficienza

di Alessia Iurato

Essere una dottoranda, in questo momento storico, potrebbe concedermi il privilegio di riflettere sul senso della nostra esistenza in un periodo che ci ha resi, come mai prima d’ora, consapevoli dei nostri limiti e delle nostre debolezze.

Tuttavia, da ormai più di un anno a questa parte, ho compreso che essere dottorandi ora significa lasciarsi travolgere dai ritmi violenti e convulsi che la società ci impone. Ritmi che resistono e persistono in ambito accademico persino durante una pandemia mondiale. Il sistema ci richiede di essere produttivi. Produttivi a tutti i costi.

Come dottorandi che cosa possiamo “produrre” e, soprattutto, come possiamo farlo se le sedi in cui avviene la “produzione” del pensiero non sono praticabili? Come si può pretendere che i dottorandi siano produttivi nella ricerca quando vengono loro sottratti il dibattito e il confronto con i colleghi, fondamentali per la riflessione e la circolazione delle idee? Qualcuno si interroga sulla qualità del pensiero che può nascere in una condizione di frustrazione per il ricercatore? Il sistema si preoccupa delle difficoltà e delle angosce con cui noi dottorandi stiamo convivendo quotidianamente, in un clima di assoluta incertezza e precarietà, tormentati dall’inquietudine di non riuscire a concludere la nostra ricerca? La risposta è no: le uniche motivazioni ritenute valide per mandare avanti la ricerca, così come i sistemi universitario e scolastico, sono la produttività e la valutazione quantitativa del lavoro.

Il Covid-19 ostacola da oltre un anno le attività di ricerca: biblioteche, archivi e laboratori sono ancora difficilmente accessibili o chiusi. La ricerca sul campo è in molti casi impossibile. I periodi di ricerca e formazione all’estero sono stati, nella maggior parte dei casi, annullati. L’unica misura introdotta per sostenere il dottorato di ricerca è stata la proroga di cinque mesi, riconosciuta esclusivamente ai dottorandi iscritti al XXXIII ciclo. Non siamo soddisfatti delle misure adottate: anche i dottorandi dei cicli successivi al XXXIII (cicli XXXIV, XXXV, XXXVI) hanno subito ugualmente enormi rallentamenti e disagi nel proprio lavoro di ricerca. Migliaia di dottorandi dei cicli successivi al XXXIII, infatti, hanno assistito a un tragico arresto della propria attività di ricerca proprio nella fase iniziale della loro formazione.

Foto di Alessia Iurato

Nel mio caso è importante fare una precisazione: nonostante le difficoltà, i rallentamenti e i limiti causati dalla pandemia, ho avviato il mio programma di cotutela tra Italia e Germania, trascorrendo il mio periodo di ricerca all’estero, seppur segregata in casa. Sono iscritta al XXXV ciclo di dottorato e mi occupo di linguistica cinese, acquisizione linguistica e linguistica dei corpora degli apprendenti. Sto svolgendo il mio secondo anno di ricerca tra Italia e Germania, con la costante e preziosa supervisione dei miei due relatori. In un momento così delicato per la ricerca, mi reputo fortunata: ho iniziato la mia formazione all’estero e, cosa più importante, ho instaurato un ottimo rapporto professionale e umano con la mia tutor italiana e con il mio supervisor tedesco. Entrambi mi stanno accompagnando con grande impegno nel mio percorso di ricerca.

Sebbene non se ne parli spesso e apertamente, ciò di cui noi dottorandi abbiamo più bisogno in questo momento è il sostegno morale. Un recente studio condotto dai dottorandi del Dipartimento di storia, antropologia e religioni dell’Università Sapienza di Roma, ha dimostrato come gli effetti dell’isolamento forzato causato dal lockdown abbiano avuto preoccupanti ripercussioni sul benessere e sulla serenità dei dottorandi. Che i dottorandi siano sempre stati sottoposti a forti pressioni psicologiche è cosa nota e ampiamente riconosciuta, ma frequentemente sottovalutata.

In questi mesi ho osservato l’impatto della pandemia sulla realtà universitaria in Italia e in Germania. Dal confronto con i colleghi delle due istituzioni presso le quali conduco la mia ricerca, è emerso un diffuso senso di sconforto. Ciò che rattrista noi ricercatori non è solo l’aver perso le preziose opportunità di formazione di cui si gode durante il dottorato, ma piuttosto l’aver preso coscienza dei limiti del nostro ruolo: ci viene chiesto di pensare, o meglio, di elaborare un pensiero originale in un momento in cui il nostro spirito e la nostra mente sono preda di un’incontrollabile e insopportabile paralisi.

Le nostre preoccupazioni e le nostre angosce, unite al frastuono della continua ingannevole operosità di coloro che si elevano a specialisti, pur essendo totalmente inesperti in uno specifico campo, annebbiano e affaticano il nostro processo creativo. Assistiamo, infatti, sui social media, a miseri scenari in cui millantatori, vittime inconsapevoli dell’effetto “Dunning-Kruger”, ostentano conoscenze mai possedute. In psicologia questo fenomeno è definito ‘superiorità illusoria’. Il possesso di una reale conoscenza, al contrario, può produrre una distorsione inversa. Chi è consapevole dei propri limiti, e quindi dell’estensione della propria ignoranza, possiede un’affievolita percezione delle proprie competenze che provoca una diminuzione della fiducia in se stessi. 

In un clima di tale fragilità psicologica, non è certo che si possa rispondere alle pressanti richieste del sistema che ci vuole produttivi a tutti i costi.

Foto di Franco Gatti

Stiamo vivendo una paralisi del pensiero creativo, accentuata gravemente dai sensi di colpa che ci affliggono nel momento in cui comprendiamo di non essere “efficienti” e “produttivi”. Il sistema sociale in cui siamo cresciuti e in cui siamo stati educati ci ha sempre insegnato che essere efficienti è una virtù, non essere efficienti e produttivi, invece, è una colpa. Di conseguenza, la società ci ha convinti a condannare l’inattività, i silenzi, le pause, l’ozio e la noia, attribuendo a questi sostantivi delle accezioni negative.

Ne risulta il senso di colpa che proviamo ora, perché incapaci di essere produttivi durante una pandemia. Ci sentiamo carichi di responsabilità e, al contempo, limitati nella scelta delle nostre priorità, sia di studio, sia esistenziali. Ci preoccupiamo di avere sempre un’agenda fitta di impegni che diano di noi l’immagine di studiosi operativi ed efficienti, così come i genitori e la società si ostinano a bombardare i bambini di stimoli – compiti, lezioni, corsi extra-scolastici, hobby – perché risultino sempre impegnati e quindi più capaci dei loro coetanei.

Tutto ciò perché per la società l’inattività e la noia sono nemici da combattere. Non è così. L’inattività e la noia sono preziosissime, perché consentono di allenare l’immaginazione, quella pratica che, come sostiene Arjun Appadurai, fungendo da preludio all’azione, stimola il pensiero.

Esercitare il pensiero è un esercizio faticoso, che richiede tempo e provoca sofferenza.

Quando è iniziato il nostro confinamento, abbiamo creduto che la quarantena potesse essere una buona occasione per pensare e immergerci nella ricerca. Ci siamo sentiti ribadire che l’isolamento forzato sarebbe stato un’opportunità imperdibile per lavorare in modo proficuo e creativo. 

A distanza di un anno, i risultati sono ben diversi: abbiamo provato sulla nostra pelle il senso di straniamento causato dall’ansia del confinamento. Abbiamo compreso che le ingiunzioni ad “approfittare” di questo periodo per lavorare in maniera più produttiva hanno comportato, invece, un rallentamento del ritmo di lavoro. Tutto ciò ha generato nei giovani ricercatori un senso di inadeguatezza, sensi di colpa e crescente frustrazione. Frustrazione amplificata dalla nostra assenza dalle vetrine dei social. Chi non parla, chi non si espone, chi non si mette in vetrina è considerato qualcuno che non ha nulla di interessante da dire o, ancora peggio, qualcuno che non è in grado di formulare un pensiero che meriti di essere condiviso. Nell’attuale mondo caratterizzato dalla produzione culturale e scientifica replicata all’infinito, infatti, serpeggia la perversa convinzione che chi non rende pubblico continuamente il proprio pensiero non possa, nello stesso tempo, essere uno studioso competente nel proprio settore. Di conseguenza, si ritiene che un simile studioso non abbia autorevolezza per esporre la giusta interpretazione della realtà a chi è incapace di coglierne le incognite.

Foto di Franco Gatti

Potrebbe esserci riconosciuto il diritto, durante una pandemia globale, di abbandonarci al silenzio per riflettere? Per elaborare le angosce del momento, non è necessario esprimere tutto ciò che ci passa per la mente. Possiamo rinunciare all’egocentrico e insano piacere di dover dimostrare costantemente agli altri il risultato del nostro lavoro? Come sottolineava Bertrand Russell nel suo saggio Elogio dell’ozio, l’uomo moderno pensa che tutto debba essere fatto in vista di qualcos’altro e non come fine a se stesso. Dovremmo prestare più attenzione al processo formativo che conduce gradatamente l’intelletto all’assorbimento consapevole della conoscenza. Solo allora abbandoneremo l’ansia di dover presentare i risultati finali del nostro lavoro. Solo in questo modo si potrà evitare di formulare pensieri sterili, privi di riflessione critica. Pensieri, o meglio, “produzioni” la cui quantità e frequenza, purtroppo, aumentano con ritmi allarmanti.

Per dirla con Seneca e Bertrand Russell, abbiamo urgente bisogno di tempo per oziare e per annoiarci. Solo l’ozio e la noia ci consentiranno di riscoprire il gusto di pensare e creare in modo disinteressato. Solo sottraendoci alla dittatura dell’efficienza, potremo riscoprirci curiosi. Potremo ritornare a elaborare nuovi pensieri e a maturare nuove conoscenze.

Lo scorso secolo Russell nutriva la speranza che in futuro venisse insegnata ai giovani l’arte del non fare nulla. A distanza di quasi un secolo, il pensiero di Russell risulta ancora attuale: avremmo davvero bisogno di essere rieducati alla spensieratezza e giocosità che sono state in buona misura soffocata dal culto dell’efficienza.

Dovremmo anche tornare a ispirarci al concetto di ‘non azione’ del taoismo, in cinese wuwei (無爲 wúwéi). La nostra ricerca trarrebbe vantaggio dalla libertà di poter riflettere senza dovere agire; questo ci consentirebbe di coltivare il nostro intelletto liberi dall’ossessione di dover produrre un risultato.

Il riposo e la non azione di cui avremmo bisogno per rianimare lo spirito che ci guidi nella ricerca non equivale ad annullare il nostro pensiero; nessuno vorrebbe che l’uomo si riducesse a una  bestia animata solo da impulsi e priva di ragione. Nella concezione di riposo che invochiamo, consideriamo l’ozio quell’attività volta a stimolare l’intelletto.

L’abbandono al riposo ci consentirebbe di leggere, studiare, osservare, riflettere e anche di interrogarci sul senso della nostra esistenza e del nostro ruolo sociale, in quanto studiosi e futuri rappresentati dell’Accademia, in un periodo che ci ha mutilati nel pensiero, nella parola e nell’azione.

Foto di Franco Gatti

Se quello che ci viene chiesto di fare è pensare, lasciate che sia il nostro senso etico a guidare la riflessione. Concentriamoci sul vero obiettivo della nostra attività di ricerca. È nostro dovere morale, come studiosi e intellettuali, rivendicare l’importanza della lentezza come virtù indispensabile per raggiungere la conoscenza.

Se un pezzetto di cioccolato s’ingoia in un solo boccone, senza che il piacere arrivi a stuzzicare i sensi, il suo sapore non si avverte. Quel pezzetto di cioccolato va assaporato, lentamente, consapevoli del piacere che ci si vuole concedere in quel momento. Bisogna lasciare che si sciolga, lentamente, e che il cacao s’impasti nella bocca, per poi raggiungere i sensi e procurare godimento. Infine, senza che noi ce ne accorgiamo, gli zuccheri del cioccolato arriveranno, lentamente, al sangue e saranno assorbiti dal nostro organismo per essere impiegati al momento del bisogno.

Lo stesso vale per la conoscenza. Perché la conoscenza sia sostanziale ed espressione della nostra riflessione critica sulla realtà, è necessario che le cose penetrino lentamente nel pensiero, che s’infiltrino nel tessuto delle cognizioni, che si trasformino in espressioni e diventino esse stesse espressioni della nostra esistenza. La conoscenza ha bisogno di una sapiente lentezza, perché se ne possa sentire il sapore. Ma purtroppo, ormai da tempo, abbiamo offerto la nostra conoscenza in pasto alla velocità e alla voracità dettate dai tempi in cui viviamo. Si ingoia tutto senza assaporare, senza comprenderne il valore e l’aroma. Non ci si ferma a meditare su cosa si sia ingoiato. Si ingoia voracemente tutto ciò che ci viene proposto e che torna comodo ingoiare in un determinato istante. Si ingurgita famelicamente tutto ciò che capita, senza distinzione, senza metterlo in rapporto o in contraddizione con ciò che già conosciamo.

La conoscenza e l’esistenza si separano quindi in una dicotomia. Due elementi che non si compenetrano più a vicenda; la prima non è più la conditio sine qua non perché abbia diritto di esistere la seconda, e viceversa. La conoscenza si limita alla sua natura funzionale, non si fonde con l’esistenza. Assistiamo inermi a una metamorfosi del sapere, di cui si riconosce soltanto il valore strumentale in una quotidianità sbrigativa che respinge, più o meno consciamente, la riflessione. Qual è il fine di questa voracità? Trovare soluzioni immediate ai quesiti che turbinosamente ci piombano addosso – quesiti che ci colgono impreparati, come è naturale che sia, procurandoci ansietà – cercando di anticipare tutti nel trovarle. Bisogna essere primi in tutto, ma questo primato è raggiungibile solo soddisfacendo in modo esasperato due condizioni: la velocità e la quantità. Abbiamo così annientato il valore del pensiero critico e della conoscenza; abbiamo dimenticato che il pensiero critico e la conoscenza si nutrono di lentezza, profondità, originalità, lungimiranza.

Lamberto Maffei, già direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR e presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, nel suo saggio dal titolo Elogio della lentezza, sostiene che il desiderio di voler competere con l’efficienza delle macchine rapide costruite dall’uomo, disponendo “solo” delle capacità del cervello umano, una macchina lenta, procura angoscia e frustrazione.

La netta prevalenza del pensiero rapido, che per definizione rigetta persino il più sbiadito tentativo di ponderazione, può comportare irreparabili danni all’educazione e al vivere civile. Il sapere, che deve assorbirsi per trasformarsi in linfa per nuovi stimoli, pretende lentezza. Il sapere ha bisogno di maturare attraverso il dubbio, l’indagine, la riflessione. Il pensiero segue dei tempi propri di maturazione che non possono coincidere con quelli imposti in modo rigido e inflessibile dal sistema che ci richiede di essere “produttivi”.

A differenza delle macchine rapide, siamo in grado di analizzare concetti, mettere a confronto diversi elementi, attribuire a quello che si apprende il valore di una crescita intellettuale ed emotiva. Il nostro intelletto ci consente anche di riflettere, meditare sul senso dei fenomeni, sulla loro importanza, sull’incidenza che in potenza hanno di plasmare i nostri destini.

Non solo siamo in grado di fare tutto questo grazie al pensiero, ma abbiamo un esasperato bisogno di farlo per sentirci vivi. Dobbiamo farlo per identificarci davvero nello zoon politikon (ζῷον πολιτικόν)  aristotelico. Dobbiamo farlo perché consumati dall’incontenibile desiderio di lasciare un contributo significativo nella realtà in cui viviamo, verso la quale abbiamo delle responsabilità etiche.  

Queste riflessioni sulla responsabilità morale si sovrappongono a un’altra riflessione sul nostro ruolo sociale e professionale.

I dottorandi hanno un’identità ibrida tra lo studente e il ricercatore. L’iniziale entusiasmo nato dal poter dedicare molto tempo alla ricerca viene spento rapidamente dalla realtà dei fatti: non ci è più concesso lo studio fine a se stesso.

Ci viene chiesto di pensare e “produrre” perché necessario per accumulare quei titoli che possano soddisfare i criteri ministeriali. Fin dall’inizio del percorso accademico si è proiettati verso una dimensione quantitativa piuttosto che qualitativa del lavoro. Veniamo addestrati a produrre in quantità. Il valore, la ricchezza del nostro pensiero, la nostra visione critica nei confronti della realtà, l’impatto reale che la nostra ricerca potrebbe avere per il futuro rimangono utopie di un’Accademia che non esiste. Ci si sente dipendenti di un’azienda, non più intellettuali. Il proprio prestigio è direttamente proporzionale alla quantità dei trofei accumulati; l’originalità del pensiero passa in secondo piano, perché non valutabile in termini quantitativi.

Dinnanzi a questa consapevolezza, unita all’attuale incapacità di condurre una ricerca soddisfacente e alle frustrazioni provocate dagli impegni imposti, risulta necessario trovare una cura per domare il senso di smarrimento che ci accompagna durante la pandemia.

Tale condizione genera dolore.

In questi mesi ho imparato a trasformare il tormento in conoscenza, ispirandomi al concetto eschileo del pathei mathos (πάθει μάθος), ‘la conoscenza attraverso la sofferenza’. Anche questa volta, come spesso mi accade quando provo ad analizzare la realtà, la tragedia greca mi ha fornito le risposte che cercavo per interpretare le difficoltà del presente. La citazione pathei mathos, espressa nell’Agamennone di Eschilo, invita l’uomo a esplorare tutte le possibilità di crescita aperte dalla sofferenza. La tragedia educa l’uomo, guidandolo in un processo di maturazione psicologica attraverso cui raggiungere la catarsi. Il pathei mathos ci insegna che è possibile convertire le passioni emotive, come il dolore, in passioni riflessive, come la conoscenza. L’eroe tragico, in cui possiamo identificarci, è colui che, anche se nell’acmè (ἀκμή, punto culminante, apice) tragica non può sottrarsi agli errori che gli procurano dolore, grazie al suo drammatico destino, giunge a conoscere se stesso. L’esperienza tragica è quindi l’esperienza dell’interiorizzazione della conoscenza.

Durante l’attuale pandemia, l’interiorizzazione della mia conoscenza è passata attraverso l’angoscia generata dagli obblighi imposti e dalla paralisi del pensiero. Il pathei mathos si può applicare anche ad altri aspetti della vita quotidiana. Abbiamo subito la privazione del tempo da trascorrere con i nostri cari, la privazione della nostra libertà di muoverci e viaggiare, la privazione di ciò che eravamo abituati a dare per scontato. Sarebbe necessario che la nostra conoscenza passasse attraverso l’esorcizzazione della privazione.

La pandemia, come la tragedia, ci ha insegnato a riflettere sul valore educativo della sofferenza e a rinascere dal tormento.

Nel mio caso, il teatro mi ha permesso di acquisire un nuovo senso di armonia. Non sarà solo una coincidenza se durante l’epidemia che colpì Atene dal 430 a.C. al 427 a.C.,  episodio testimoniato dell’Edipo Re di Sofocle e dalla Guerra del Peloponneso di Tucidide, assistere alle rappresentazioni teatrali costituiva probabilmente una forma di terapia. Gli studiosi si interrogano ancora se la katharsis (κάθαρσις, purificazione), termine con cui Aristotele descriveva l’effetto della tragedia sul pubblico, avesse principalmente una connotazione medica o spirituale. Le testimonianze archeologiche dimostrano che alcuni dei templi dedicati ad Asclepio, il dio della medicina, avevano un teatro nelle immediate vicinanze, spesso collegato tramite passaggi sotterranei. Si ipotizza che la rappresentazione teatrale fosse parte di una terapia che di solito includeva trascorrere la notte nel tempio, pregando perché gli dei apparissero in sogno e avviassero alla guarigione. I sogni sarebbero poi stati interpretati dai sacerdoti.

La cura dello spirito, affiancata alla cura dei dolori fisici praticata nell’antica Grecia, può essere d’ispirazione per affrontare le odierne difficoltà. È necessario trasformare il disagio in conoscenza, trasformarlo in un pensiero rigenerato.

Essere una dottoranda durante la pandemia mi ha insegnato che le privazioni e il tormento conducono ognuno di noi a elaborare in modo introspettivo il dolore. Ogni uomo soffre in sé e in silenzio, trae dalla sofferenza la conoscenza necessaria alla sua rinascita spirituale, vivendo questo avvenimento come una sorta di elevazione personale, scissa dalla società in cui vive.

Essere una dottoranda durante la pandemia mi ha insegnato che il pathei mathos mi può sottrarre alle angosce provocate dalla dittatura dell’efficienza e della produzione, non solo in questo momento, ma in ogni giorno che in futuro dedicherò alla ricerca.

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