Quando un bambino inizia la scuola dell’obbligo, le prime cose che impara sono come fare i calcoli e come scrivere correttamente, perché si parte dal presupposto che non ne sia capace. Corretto, nessun bambino a sei anni è in grado di fare le addizioni o scrivere in corsivo senza che qualcuno glielo insegni. Ma nessun bambino, entrando a scuola, acquisisce qualità come l’empatia, l’autoconsapevolezza e la capacità di relazionarsi con gli altri. O, almeno, nessuno gliele insegna. Perché certe competenze sono considerate secondarie rispetto a sapere quanto fa 263×29, o a scrivere “se io fossi” e non “se io sarei”? La radice di una tale “discriminazione” risiede nell’idea – già presente ai tempi di Epicuro e Cicerone – che le emozioni siano passioni sfrenate e sovversive, che ostacolano lo sviluppo e la fioritura dell’essere umano. Martha Nussbaum, filosofa statunitense, osserva che gli esseri umani sono gli unici esseri emotivi che desiderano trascendere la propria emotività, considerandola una debolezza da celare o, meglio ancora, estirpare. Infatti, le emozioni sottintendono inevitabilmente un’ombra di bisogno, un lascito di vulnerabilità. In particolare, scoprendoci fragili e bisognosi, esse compromettono la dignità delle nostre azioni e restringono la nostra visuale, facendoci rappresentare il mondo a misura dei nostri obiettivi personali. In poche parole, siamo terrorizzati dall’impotenza umana dinanzi alla propria sensibilità, che sfugge al nostro controllo e ci lascia inermi davanti a noi stessi.
Allora, vince chi fugge? Pare di no. Infatti, la marginalizzazione di una formazione di questo tipo si traduce in analfabetismo emozionale, che influisce sul processo di apprendimento. Da un lato, una scuola non adeguatamente formata all’educazione emotiva si trova impreparata davanti a comportamenti disfunzionali da parte dell’alunno, come scarsa partecipazione o difficoltà relazionali, che vengono sanzionati ma mai corretti. Dall’altro, i Disturbi Aspecifici dell’Apprendimento (DAA) hanno spesso una natura socio-emotiva, ad esempio una scarsa stimolazione socio-ambientale. Se un bambino non riesce a vivere adeguatamente la propria esperienza formativa, ciò influenzerà le sue capacità cognitive, affettive e relazionali, riflettendosi sul suo rendimento. Ciò significa, in breve, che empatia, autoconsapevolezza e capacità relazionali aiutano ad imparare quanto fa 263×29.
L’intelligenza delle emozioni
Chiamando nuovamente in causa Martha Nussbaum, le emozioni sono quindi più “intelligenti” di quanto sembri. La filosofa le chiama, citando Proust, “upheavals of thought” (sconvolgimenti del pensiero), sottolineandone la struttura cognitiva. Infatti, le emozioni ci permettono di associare gli eventi che accadono nel mondo alle nostre valutazioni su oggetti esterni in relazione ai nostri obiettivi personali. In tal senso, esse si configurano come pensieri relativi al nostro potenziale benessere, i cui oggetti sfuggono però al nostro controllo: da qui la sensazione di impotenza. E, se il primo istinto è quello di negare questa vulnerabilità o relegarla ad una sfera impulsiva e irrazionale, ci troviamo comunque a rimuginare su ciò che proviamo, il che comporta un atto di pensiero.
A tal proposito, lo psicologo statunitense Daniel Goleman ha formulato il concetto di intelligenza emotiva, con cui identifica un particolare tipo di intelligenza legato non al QI, ma alla capacità di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni. In un totale superamento del classico dualismo ragione-emozione, Goleman definisce questo tipo di intelligenza come:
“…la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la giustificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare.”
Daniel Goleman, Intelligenza Emotiva: Che Cos’é e perchè può Renderci Felici (Milano: BUR Rizzoli, 1996).
Il suo modello interessa le aree dell’autoconsapevolezza, autocontrollo, motivazione, empatia e abilità sociali, che consentono di sviluppare delle competenze personali e relazionali, dalla padronanza di sé a un rapporto consapevole con l’altro, tutti fattori determinanti per il raggiungimento dei propri obiettivi.
Emozione e formazione
La Nussbaum sostiene che le emozioni abbiano una forma narrativa, le cui radici affondano in esperienze formative avute durante l’infanzia. Esse non sono altro che il prodotto di una costruzione e ricostruzione di affezioni e informazioni, che orientano e sono a loro volta orientate dall’elaborazione di stimoli esterni. Se tale interdipendenza ha un impatto tanto significativo sul successo nella vita, il compito della scuola sembra essere quello di rendere questa narrazione più leggibile, di gettare luce sui suoi punti più oscuri. Fuor di metafora, bisogna che l’istituzione scolastica si impegni in un processo di alfabetizzazione emozionale, che insegni agli studenti a prestare attenzione ai propri stati interiori, governandoli senza inibirli. Ciò comporta il superamento del binomio cognizione-emozione a favore di una prospettiva unitaria dell’individuo, che tenga conto del conoscere ma anche del sentire. La competenza emotiva non esclude l’attenzione all’apprendimento, ma anzi la potenzia in un’ottica di autorealizzazione e sviluppo della persona a 360 gradi, fornendo gli strumenti per sapere, ma anche per saper essere e saper comunicare.
Ma come integrare il fattore emotivo in un sistema scolastico ancora focalizzato sull’istruzione rigorosa? Il primo strumento è l’introduzione di metodi di valutazione diversificati, che mantengano un approccio goal-based (performativo, basato sul raggiungimento di obiettivi prefissati) ma lo affianchino con una serie di metodi trasversali che includano lo sviluppo socio-emotivo. Tra questi, una valutazione di tipo responsive, che tiene conto della specificità del programma e della diversità dei partecipanti, o un approccio success-based, che analizza i casi limite – in positivo e in negativo – per evidenziare gli indicatori di successo. Attraverso una simile pluralità di approcci, si otterrebbe un’offerta formativa che coinvolga senza discriminazioni tanto l’area cognitiva quanto quella socio-emotiva. Ciò realizzerebbe una scuola sviluppata su più livelli, che offra la possibilità di un apprendimento non solo nozionistico ma modellato secondo bisogni specifici e specifiche difficoltà. In sintesi, una scuola che non sia solo istruzione, ma in primis formazione.
Dalla teoria alla pratica: le proposte
Lungi dall’essere un’utopia, l’idea di una scuola emotivamente inclusiva è stata messa in pratica attraverso la graduale introduzione di un metodo di apprendimento socio-emotivo (SEL). Questo è definito come “il processo attraverso il quale bambini e adulti acquisiscono e applicano le conoscenze, competenze e atteggiamenti per sviluppare delle identità sane, gestire le emozioni e raggiungere obiettivi personali e collettivi, provare e mostrare empatia verso gli altri, creare e mantenere rapporti di supporto, e prendere decisioni responsabili e attente”. Un’applicazione di questo tipo di proposta è riscontrabile, ad esempio, nel network internazionale Round Square, creato dal pedagogista Kurt Hahn, che coinvolge oltre 200 scuole nella missione di formare una futura classe dirigente consapevole e responsabile.
In Italia, il SEL ha trovato attuazione nel PERLAB, uno spin-off dell’Università di Firenze in collaborazione con il Yale Center for Emotional Intelligence. Nato dall’iniziativa di una ricercatrice, il laboratorio si pone come obiettivo la diffusione e realizzazione in Italia delle metodologie SEL, da lei apprese durante il suo periodo di studio alla Yale University. Altra proposta in tale ambito è lo European Assessment Protocol for Children’s SEL Skills, un progetto finanziato dall’European Funding Programme e promosso dalle Università italiane di Udine e Perugia, insieme all’Università di Zagabria (Croazia), l’Università di Örebro (Svezia), l’Università di Lubiana (Slovenia), la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana e la Penn State University (Stati Uniti). L’iniziativa, di durata triennale (2012-2015), ha coinvolto dirigenti e insegnanti delle istituzioni scolastiche in uno studio sui bambini nel ciclo primario dell’istruzione, volto a valutare le capacità socio-emotive e a potenziarle tramite un approccio integrato e strumenti didattici diversificati.
I progetti hanno dato risultati positivi in termini di condotta e rendimento da parte degli alunni. L’applicazione di programmi di questo tipo migliora la performance degli studenti, riducendo l’insorgenza di comportamenti ansiogeni o disfunzionali tramite un percorso trasversale che coinvolge ogni aspetto della persona. Grazie a un sistema integrato di questo tipo, il tempo di insegnamento tradizionale a disposizione – seppur ridotto – diventa più produttivo grazie a una maggiore partecipazione e un approccio più consapevole all’ambiente scolastico. In questo modo la scuola, oltre a insegnare a colorare dentro i bordi, potrebbe cominciare a guardare cosa ci sia fuori.
Bibliografia
Goleman, Daniel. Intelligenza Emotiva: Che Cos’é e perchè può Renderci Felici. Milano: BUR Rizzoli, 1996.
https://www.stateofmind.it/2018/05/competenza-emotiva-apprendimento/
https://www.stateofmind.it/2018/04/scuola-intelligenza-emotiva/