Di Emanuele Lepore
La cronaca dell’ultimo anno e mezzo è tristemente farcita di numeri. Una cifra dopo l’altra, ci siamo abituati a tenere il conto di contagi, tamponi, decessi, guarigioni. I numeri ci condizionano e il modo in cui interagiamo con statistiche e previsioni ha un effetto sulle nostre azioni.
Soprattutto a causa della pandemia da Sars-Cov-2, certi numeri hanno acquisito notevole impatto sulle nostre vite: un decimale in più o in meno ha fatto spesso la differenza. Zona gialla, arancione, rossa, lockdown, riapertura: il discrimine tra uno scenario e l’altro è espresso in numeri.
Dinnanzi a certi scellerati comportamenti, si è spesso invocato il numero dei morti, invitando così a prendere consapevolezza della gravità della situazione. 3.296.855: i decessi accertati per covid nel mondo, aggiornati al momento in cui concludo questo articolo (11 maggio, ndr). Secondo i dati Eurostat, nel 2020 in Italia si sono persi circa 40 miliardi di euro di salari. Uno studio di Confcommercio conta che, nello stesso anno, più di 390.000 imprese abbiano chiuso i battenti per un combinato di pandemia e crollo dei consumi rispetto all’anno precedente (pari a circa 120 miliardi).
Se così fosse, l’avrei visto!
Nel 1999, due ricercatori della facoltà di psicologia di Harvard, Christopher Chabris e Daniel Simons conducono il celebre esperimento del gorilla. All’osservatore viene mostrato un video in cui due gruppi di persone, le une con una maglia bianca e le altre con una maglia nera, si passano un pallone da basket. Viene chiesto all’osservatore di contare i passaggi effettuati tra i giocatori della squadra bianca. Entra una donna vestita da gorilla, si fa spazio fino al centro della scena, si batte il petto, va via. In quasi la metà dei casi, il gorilla non viene visto. Chabris e Simons pubblicano quindi Il gorilla invisibile, in cui i due ricercatori spiegano i modi in cui la nostra percezione ci inganna e il fenomeno della cecità attenzionale.
La ricchezza della nostra esperienza ci induce a credere di processare tutti gli stimoli nel nostro campo percettivo. Come mostra l’esperimento del gorilla invisibile, invece, è piuttosto comune ignorare stimoli, anche piuttosto evidenti.
Si tratta di prendere coscienza del fatto che molte cose accadono al di fuori della nostra messa a fuoco, del perimetro entro il quale facciamo convogliare la gran parte delle nostre risorse percettive e cognitive.
Immagino sia capitato a tutti di affannarsi in disperate ricerche di qualcosa che era lì, sotto al naso. Un’altra illusione importante della nostra vita percettiva e cognitiva è quella secondo la quale tutte le persone conoscono e percepiscono allo stesso modo, o meglio: come noi.
Il campo
Nell’ultima settimana, altri numeri si sono imposti alla nostra attenzione.
185: tanti sono i decessi sul lavoro nei primi mesi di quest’anno, secondo il bollettino trimestrale (gennaio-marzo 2021) dell’Inail. Anche su questo fronte, la pandemia di Sars-Cov-2 ha evidentemente costituito un fattore tutt’altro che trascurabile.
Uno sguardo a ritroso consente, a ben vedere, di rintracciare una tendenza in tragica crescita sin dai primi anni duemila. Sono numeri, proprio come gli altri che hanno battuto il campo della nostra attenzione quotidianamente negli ultimi 18 mesi. Sono rimasti però sul fondo, salvo essere risospinti drammaticamente in superficie: lo scorso 3 maggio una ragazza di 22 anni, Luana D’Orazio, è morta perché schiacciata da un orditoio, nella fabbrica tessile in cui lavorava.
Tornano agli onori della cronaca le cosiddette “morti bianche” – anche se, come ci ricorda Marco Benozzi, di candido in queste morti c’è ben poco. Anche in luogo di accertate responsabilità personali, le morti sul lavoro pesano sulle spalle di tutti noi.
I riflettori della cronaca e della nostra attenzione si muovono velocemente, rigettano presto nell’ombra ciò che non fa più notizia. Le celebrazioni – giuste, doverose – non sono sufficienti. Mentre ci si impegna per tenere sollecita l’opinione pubblica rispetto ad un tema così importante, occorre articolare processi che insistano nella quotidianità: lì dove il livello di attenzione tende a normalizzarsi e, troppo spesso con esiti nefasti, scende sotto la soglia minima.
La sfida consiste proprio nel fendere la cortina di normalità e incrociare le problematiche legate al lavoro ad una profondità ulteriore rispetto al livello dell’amministrazione corrente. Un approfondimento dell’analisi collettiva è necessario, anche in funzione dell’espansione globale delle catene di valore e in vista della massiccia riorganizzazione del lavoro che sembrerebbe richiesta per evitare un ritorno ingenuo alle dinamiche pre-pandemia.
Educazione
In un altro articolo, mi sono occupato dei PCTO (ex alternanza scuola-lavoro) provando a mostrare perché la scuola, nel rapporto con il mercato del lavoro, dovrebbe essere in grado di dettare la linea. Se è vero che è necessario un incontro tra scuola e lavoro, è altrettanto vero che senza educazione tale incontro risulta impossibile.
Nell’ipotesi più plausibile, non si tratta solo di un mismatch tra domanda e offerta di lavoro, per quanto il fenomeno sia centrale per lo stato di salute dell’economia globale. Senza progetti ad ampio raggio e investimenti strutturali in ambito educativo, tanto la scuola quanto il mondo del lavoro perdono l’occasione di rinnovarsi e di riconnettersi al tessuto sociale che garantisce la riproduzione di entrambi.
I PCTO e, in generale, i diversi momenti in cui scuola e lavoro si incontrano, non possono essere soltanto dei manicotti d’imbarco dalla scuola alle imprese. Anzi, possono esserlo ma solo a condizione di investire molte energie e molti fondi per perpetuare situazioni che, se ricevessero la dovuta attenzione, causerebbero non pochi pruriti alla collettività.
Oltre le parole magiche
Secondo la teoria quantitativa, il potere d’acquisto della moneta dipende dalla quantità di denaro in circolazione in un determinato tempo. Una maggiore quantità di moneta produce un innalzamento generale dei prezzi e una conseguente diminuzione del potere d’acquisto della moneta stessa.
Come per ogni tema importante, anche per l’educazione nel corso degli anni si è stabilita una serie di parole che, se pronunciate, assicurano un lasciapassare comunicativo – se non politico. Tra queste, le sillabe di ‘soft skill’ sono quelle che dovrebbero suscitare il più alto tasso di gradimento e credibilità. Resilienza, resistenza allo stress, capacità di lavoro di gruppo, autonomia decisionale, creatività, flessibilità. Fiducia in se stessi, problem solving e via lungo una lista che, con ogni evidenza, non è destinata a completarsi presto.
L’uso inflazionato del concetto di soft skill finisce per neutralizzarne il potenziale: un concetto funziona quando ci fa comprendere qualcosa. L’emissione sregolata ed eccessiva di moneta ha una conseguenza di questo tipo – schizzata schematicamente -: per acquistare un bene X, in un tempo T mi serve una determinata quantità di moneta. Se viene emesse una quantità eccessiva di moneta, nel tempo T1 per comprare lo stesso bene X mi servirà più moneta. Possiamo anche dire che è calato il potenziale d’acquisto della moneta. Un concetto che viene ribattuto eccessivamente, utilizzato sregolatamente, perde il suo potenziale rischiaratore: invece che aiutarci a comprendere, contribuisce a oscurare ulteriormente ciò per cui lo utilizziamo. E siamo tentati di moltiplicarne gli usi, senza agire sul suo nucleo. Ogni skill può concorrere alla formazione della persona, al suo sviluppo complessivo e onnilaterale. Acquisire nuove competenze non significa soltanto aumentare la propria occupabilità, rifluire verso un foro nell’intreccio tra domanda e offerta di lavoro così da occluderlo, tamponare una perdita.
Due possibilità, dunque. Da un lato parole diverse per dire la stessa cosa: quello che importa è che il gioco continui, senza fermarsi. E se occorrono dei sacrifici per tenere gli ingranaggi bene oliati, allora sarà meglio che tutti siano pronti. Meglio ritagliare il percorso formativo sulla fisionomia di un mercato del lavoro che, per sua natura, cambia con una velocità tale da lasciare come sola opzione una schizofrenica rincorsa. Dall’altro lato, invece, l’educazione è la punta del trapano. Ci si guadagna, con la fatica richiesta, l’accesso alla complessità dei fenomeni. Qui si dice educazione al lavoro e si sa bene che ogni skill, hard o soft che sia, ha bisogno di essere connessa vitalmente ad un nucleo, per essere operativa. E il nucleo è la persona, con la capacità critica di stabilire autonomamente a quale orizzonte di vista prestare fede, dove tracciare linee inoltrepassabili, quale postura adottare. Da quest’altro lato, il mercato del lavoro è una struttura certamente complessa, che non nasce però dal nulla e richiede che tutte le persone che di esso fanno parte abbiano la risorse critiche per comprenderlo. Per dare ad esso una certa forma e non un’altra.
Come è evidente, corriamo un rischio piuttosto grave: che educazione e lavoro si incontrino soltanto lungo il primo versante, dove in verità risuonano altre parole. Lì dove non si è in grado di comprendere che il lavoro è un fatto sociale e che il livello di benessere connesso al lavoro di una persona riguarda tutte le altre, riguarda tutti noi.
Educare al lavoro è attività critica, sguardo non rassegnato dinnanzi al fatto che sia accettabile morire di lavoro. Questo non significa che la scuola non debba tenere conto delle esigenze che provengono dal mercato del lavoro. Tutt’altro: significa riconoscere la sfida che questo comporta, perché nessuna esigenza è neutrale. D’altro canto, è evidente che non è neutrale neppure il modo in cui processiamo le esigenze che riceviamo.
Se è chiaro che il lavoro richiede di essere accolto tra i principi cardine dell’educazione, deve essere altrettanto chiaro che la prima forma di incontro tra scuola e lavoro riguarda la forma e i modi in cui quest’ultimo è organizzato. La storia del lavoro e della sua organizzazione è storia dell’umanità, del costante tentativo di razionalizzare risorse in vista di obiettivi.
Perché, dunque, non fare del lavoro oggetto di studio trasversale e interdisciplinare, a scuola e sul campo, così che l’ingresso nel mercato lavorativo non sia più un salto nel buio?