Quando suona la campanella

Editoriale a cura di Laura Porta ed Emanuele Lepore

Il suono della campanella e il rientro in classe degli alunni quest’anno ha un significato e un’importanza del tutto particolari e in questo momento più che mai la ripresa della macchina scolastica deve essere un tema di assoluta priorità nell’agenda politica e sociale del nostro Paese. Vale la pena chiedersi come si sia arrivati a Settembre senza un dibattito veramente strutturato, senza un piano chiaro e comune, senza un accordo strategico che mettesse “i puntini sulle i” di ogni singola misura e di ogni singola attività che riguarda la riapertura delle scuole. Tra posticipazioni, tavole rotonde inconcludenti, discussioni futili e opinioni disarticolate, lo Stato non è stato veramente in grado di assicurare certezze, regole condivise e sacrosanta informazione e chiarezza a chi a scuola ci doveva tornare per studiare o per insegnare. Sui compiti delle vacanze, il voto che si merita la macchina statale italiana è quantomeno un impreparato”: per tutta l’estate sembra che la politica si sia dimenticata della scuola, fino ad arrivare a Settembre e capire che non si poteva rimandare più. Esattamente come il ragazzino che arriva a dover scrivere i quattro temi assegnatogli durante le vacanze dalla professoressa di italiano nell’ultima settimana utile, i politici di ogni colore hanno smesso di pensare a tutto il resto e hanno tentato di rimediare, in un rush finale che ha portato il tema finalmente ad avere una priorità assoluta, ma evidentemente troppo tardi. A voler scrivere un tema al giorno per una settimana, il risultato in termini qualitativi non può che essere mediocre: la consegna imminente del compito, l’urgenza del tema, ha portato i nostri politici a farne uno strumento di propaganda dell’ultimo minuto, baluardo della campagna sia di maggioranza che di opposizione. Nella stessa logica della consegna imminente dei temi di italiano, per la quale il ragazzino si trova a dover saltare le partitelle di calcio con gli amici, i politici, a partire dal ministro Speranza, finalmente si sono resi conto che ad una certa la riapertura in sicurezza delle scuole dovesse essere un tema prioritario rispetto al dibattito sulla riapertura degli stadi con capienza al 25%

Muovere una macchina così farraginosa e ripensarla in poco tempo non è stato per nulla semplice, tanto che tra discussi e mal gestiti bandi per la costruzione di milioni di banchi monoposto e incertezze sull’uso del detergente per la sanificazione dei quaderni e dei libri, tra quarantena obbligatoria della classe e scioperi ed elezioni ad una settimana dalla prima lezione, il risultato finale non merita la sufficienza.

1. Un lungo lockdown, l’unica soluzione

“L’Italia è il Paese europeo che ha chiuso le scuole per più tempo durante la pandemia”, dall’inizio di Marzo a metà Settembre ufficialmente, con la differenza solo di alcune settimane a discrezione della specifica Regione.

I dati, provenienti dal Centro europeo per il controllo delle malattie, comparano la soluzione italiana con quella degli altri Paesi europei, i quali hanno reagito con chiusure meno tempestive, parziali e di minore durata. Le differenze nella gestione e nei provvedimenti possono essere ricondotti alle criticità della situazione pandemica in Italia al momento del lockdown e alla mancanza di conoscenza riguardo la diffusione della pandemia. La decisione di chiudere un Paese, di chiudere le scuole (cercando di trasformarle, per quanto possibile, in una versione digitale ancora troppo poco sviluppata) è stata la decisione giusta, anche se inizialmente incompresa: con un sistema sanitario che non può permettersi di accogliere un solo malato in più, che ha concentrato per mesi tutte le risorse verso un unico enorme e onnipresente reparto COVID19, non si doveva pensare ad altro che ridurre il contagio.

Paul Krugman, in un articolo del New York Times, ha elogiato il sistema italiano come miglior modello di gestione della crisi pandemica, sottolineando il fatto che il lockdown non è stato vanificato da una riapertura frettolosa e superficiale, come in America, ma al contrario un passo alla volta, con attenzione e prudenza.

Per questo la scuola ha chiuso subito e non ha riaperto fino a questi giorni, perché non è che non si abbia a cuore la libertà, ma ci vuole anche una certa dose di serietà nel gestire delle situazioni di questa portata, come fa notare il nostro Presidente della Repubblica al primo ministro inglese.

2. La scuola non può rimanere deserta, ma come?

Nonostante la curva dei contagi si sia tornata ad alzare, con 4.158  nuovi positivi (numero prossimo a quelli di fine Marzo di quest’anno) e la prudenza insita nei gesti quotidiani che abbiamo imparato a fare nostri durante i mesi peggiori del contagio, ora si deve, con coraggio e attenzione, ripartire. 

Ripartire con una scuola in presenza, con i ragazzi e gli insegnanti in classe, anche se a debita distanza. Jonathan Suk dell’ECDC sottolinea durante una sessione della conferenza della Società Europea di Microbiologia clinica (Escmid), come le scuole, adottate le misure adeguate, non sono ambienti peggiori dal punto di vista del rischio rispetto ad altre situazioni lavorative o attività nel tempo libero con una densità simile di popolazione. Semmai il problema è la infettività e la asintomaticità dei bambini: essendo la prima sconosciuta e la seconda comprovata, i bambini di ritorno dalla classe potrebbero contagiare le fasce più deboli della popolazione. 

Si deve ripartire perché le infrastrutture e i modelli odierni non sono ancora pronti ad erogare una didattica a distanza che sia degna sostituta della didattica in presenza, né tantomeno è sicuro o auspicabile che avvenga una sostituzione totale in futuro. La presenza, l’attenzione, la relazione, la socialità sono elementi fondamentali dell’educazione, dell’apprendimento e della formazione. Lo schermo, nonostante le potenzialità e la sempre maggiore confidenza d’uso maturata dai giovani sin dalla prima infanzia, si frappone tra colui che educa e colui che apprende e in molti modi inficia la qualità della trasmissione del sapere. Tutto questo senza contare che, al contrario dei giovanissimi, gli insegnanti hanno molte più difficoltà nel gestire anche solo gli strumenti base necessari per la digitalizzazione della didattica.

Alle difficoltà, per così dire, “generazionali” e alle posizioni scientifico-pedagogiche più critiche o caute occorre aggiungere un problema strutturale, la cui soluzione è urgente (e lo è da molto tempo): le difficoltà, in alcune zone del Paese, di avere una connessione internet adeguata. Abbiamo bisogno di una infrastruttura migliore, soprattutto per lo studio e per il lavoro. Altrimenti di tutte le attività #smart ci resterà solo la parte più dolorosa.

3. Uno sguardo disincantato al futuro

Siamo sicuri che la scuola italiana sia stata davvero messa in crisi dal Covid-19? Sui principali social, negli scorsi mesi, ha circolato un messaggio eloquente: “Chi ha portato l’innovazione nella tua azienda? Il Ceo, gli impiegati, il consulente esterno, il Covid? ”. Saremmo fortunati, se potesse valere anche per la scuola italiana. Ma tra Quota 100, turnover e metodi di assunzione quantomeno farraginosi, viene da chiedersi se in realtà la pandemia globale sia riuscita solo leggermente a graffiare le da tempo inscalfibili strutture dell’istruzione pubblica italiana, dimostratesi nel tempo molto più resistenti di quelle fisiche dove ora con fatica ritornano gli alunni. 

dati forniti dal Ministero dell’Istruzione ci dicono che a settembre 2020 sono andati in pensione 26.327 docenti, di cui 13.429 attraverso la via ‘Quota 100’ (62 anni di anzianità + 38 anni di contributi).  Non è problematico di per sé che un elevato numero di insegnanti vada in pensione: lo diventa nel momento in cui i meccanismi di assunzione sono assai poco lineari e non riescono a coprire i posti vacanti. A questo si aggiunge un dato piuttosto eloquente: secondo il report “Education at glance 2019” – che monitora diversi fattori nel mondo dell’istruzione nei paesi Ocse – in Italia il contingente di docenti più nutrito (59%) ha un’età media che supera i 50 anni. Anche in ragione di dati demografici, pare esserci una strozzatura in uno dei settori chiave per lo sviluppo (non solo economico) di un Paese. Per comprendere il fenomeno, è certamente da notare anche il divario che c’è tra gli insegnanti italiani e quelli degli altri Paesi europei quanto allo stipendio – divario che si fa più netto soprattutto per le scuole medie e per le scuole superiori.

Se da un lato abbiamo problemi strutturali, con trend difficilmente correggibili nel breve-medio termine, dall’altro la situazione critica potrebbe favorire la composizione dei molteplici interessi e delle diverse istanze che attraversano il mondo della scuola e, in generale, dell’educazione. Si tratta di domandarsi in che modo, a prescindere dalle posizioni istituzionali, studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo vogliano ripartire.

4. E l’Università? Iniziamo a porre la questione

La ripartenza delle università si sta giocando tra applicazioni per le prenotazioni di posti a sedere in biblioteche e aule, didattica duale e disarticolazione della comunità studentesca. Non si vuole sottovalutare lo sforzo delle diverse università per organizzare la didattica, anche con ingenti spese. Si tratta piuttosto di segnalare uno dei rischi (il principale, forse) insiti nella assenza di studentesse e studenti nei luoghi in cui si svolge l’esperienza universitaria. Ma su questo non sono solo le istituzioni universitarie a dover agire: la palla passa alle comunità studentesche, che devono mostrarsi in grado di ripensarsi e riorganizzarsi per continuare ad esistere. Pur non volendo forzare associazioni con il passato, va tenuta da conto l’importanza che le comunità studentesche hanno avuto nel processo di trasformazione dell’università e, in generale, dell’educazione in Italia. Si tratta, in fondo, di rendersi conto che senza comunità non può esservi università. Per la scuola, soprattutto in tempi critici, vale lo stesso.

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