Il coding nelle scuole: si fa sul serio?

Se il termine informatica ha perso ormai di valore in una programmazione didattica in cui ha faticato a trovare il suo spazio e il suo tempo, parlare di coding apre porte ben più interessanti in un’ottica di incontro tra scuola e tecnologie dell’informazione. Per coding si intende l’attività del programmare, ovvero il tradurre un problema in algoritmo, una sequenza finita, deterministica e non ambigua di passi. Una capacità, quella del risolvere i problemi, senz’altro necessaria fin dall’infanzia. È bene, dunque, chiedersi a che punto del lungo e tortuoso percorso d’incontro di cui sopra si è giunti in Italia.

In Italia si fa sul serio?

La riflessione vuole coinvolgere tutti gli ordini e i gradi di istruzione della scuola italiana, dunque dall’infanzia alla secondaria di secondo grado, nonostante la consapevolezza della chiara diversità di modi e tempi in cui il coding dovrebbe entrare ad arricchire le aule, siano esse fisiche o virtuali. In Italia si parla di coding nelle scuole da più di sei anni. Da ormai quasi due anni, tra i banchi della Camera dei Deputati, è stata approvata la Mozione (n. 1-00117) cosiddetta Coding, volta a rendere obbligatorio entro il 2022 lo studio del coding, al fine di sviluppare, attraverso nuovi e innovativi spunti, il pensiero computazionale, che consiste sostanzialmente nella formulazione e risoluzione di problemi con un approccio logico-creativo. Lo si è fatto sicuramente in quanto spinti dal modello americano, che pare funzionare piuttosto bene, e da quello dei colleghi europei più virtuosi. Un modello che, però, in quanto tale dovrebbe solo ispirare, perché il sistema scolastico italiano è nei fatti troppo distante da quello dei Paesi citati, per cui estrapolare ciò che funziona senza adattamento allo stato di cose è poco virtuoso e coscienzioso.

Si parla comunque di rendere il coding importante tanto quanto il saper leggere, scrivere e far di conto. E si parla non di meno di promuovere quanto più possibile attività legate all’apprendimento del coding anche nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Ma c’è davvero maturità d’intenti? E soprattutto, si sta sul serio proseguendo con costanza, efficacia e coscienza per favorire il raggiungimento di questo canzonato obiettivo a cui molti hanno fatto cenno con grande soddisfazione?

A sentire un parere generalizzato da parte dei docenti, le risposte, ad entrambe le domande, non possono che essere negative. Non tanto a causa della mancanza di apertura al nuovo di cui per anni l’istruzione italiana si è macchiata, ma per noncuranza: per un’assurda e distruttiva assenza di seria organizzazione e valida strutturazione. A buon diritto gli insegnanti sentono la necessità di essere formati con maggiore coinvolgimento, ed è chiaro che non possono risultare sufficienti iniziative e corsi messi a disposizione su siti web di varia natura e differente qualità, che hanno senz’altro il grande vantaggio di essere alla portata di – quasi- tutti. Al contempo mostrano subito, anche a un occhio non così tanto attento, quanto la necessità principale sia quella di incanalare verso il giusto approccio al nuovo, poiché spesso i problemi dell’istruzione non scaturiscono dalla mancanza di mezzi e strumenti, ma dalla corretta predisposizione che si ha verso questi ultimi. Dal momento che le competenze informatiche e a maggior ragione quelle specifiche di programmazione informatica non sono affatto scontate né prerogativa del bagaglio culturale e formativo dell’insegnante tradizionale, il mare magnum di risorse online a disposizione finisce per essere poco utile, se non addirittura controproducente, soprattutto per chi si mostra ancora poco avvezzo al mondo digitale, o anche per coloro che, nel mondo della formazione e dell’educazione, continuano ad essere guidato da indifferenza o da paura, che scaturisce dall’inesperienza e dall’ignoto. 

Stando ai dati ufficiali, però, tutto questo chiaramente emerge a fatica. Dall’ultima circolare del Ministero dell’Istruzione, in merito al Progetto “Programma il Futuro” – una delle iniziative cardine del tentativo di avvicinamento al pensiero computazione e a vari altri aspetti del mondo delle tecnologie informatiche – è possibile leggere qualche numero a riguardo: «L’iniziativa è arrivata ormai a coinvolgere quasi 3.000.000 studenti, 37.000 insegnanti e 7.000 scuole in tutta Italia, collocando il nostro Paese all’avanguardia in Europa e nel mondo.». Parole che farebbero ben sperare, ma se si osserva attentamente si evince un quadro  ambiguo e poco rassicurante: 3.000.000 di studenti a fronte di più di 8 milioni di studenti che bazzicano nelle scuole italiane, 37.000 insegnati a fronte di più di 800.000 cattedre occupabili e 7.000 scuole, delle circa 9.000 totali dell’intero Paese, che si compongono a loro volta di più sedi, il che non implica necessariamente che tutte le sedi facenti capo ad una sola scuola abbiano effettivamente classi coinvolte nell’iniziativa, un numero poco parlante dunque. Senza contare il fatto che la gestione del tutto è lasciata a discrezione della singola scuola, dei dirigenti e dei “docenti referenti”, che avrebbero il compito di sensibilizzare, incentivare, fare una sorta di attività di scouting, ovvero andare alla ricerca dei colleghi vagamente interessati al tema e, come se non bastasse, sorvegliare affinché le attività vengano ben inserite nel piano didattico e abbiano un seguito appagante. Per concludere, si aggiunga anche l’attività per lo più a distanza, dettata per forza di cose dalla situazione contingente, e il gioco è fatto.

Ancora molti studenti non conoscono il significato della parola coding, alcuni tendono a confondere lo studio delle basi dell’informatica, certamente propedeutiche, con le nozioni di programmazione. Eppure, si parla ormai di una popolazione scolastica costituita dai cosiddetti Centennials e post-Centennials (le Generazioni Zeta e Alfa), che, al di là di questi facili appiattimenti, sono i nati nell’Internet, per cui forse la fatica da fare, affinché le loro già mature esperienze informatiche vengano incanalate verso la giusta direzione e si evolvano in vere e proprie competenze, non sarebbe così gravosa. Del resto, è quasi scontato da sottolineare che la formazione scolastica ha anche l’obiettivo di rendere gli studenti dei futuri attori attivi, non passivi, del mondo da vivere. Il 2022 è piuttosto vicino. Forse c’è bisogno non solo di sperare, ma anche di prodigarsi perché le cose vadano secondo i piani, altrimenti non rimarrà che un tentativo nobile ma fallimentare, evitabile, senza dubbio.

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