Perchè esiste l’Università?
Quando si parla di Università si parla di fondi e strutture, di competenze e ricerca, di DAD e di voti di Laurea. Raramente ci si chiede quale sia la sua ragion d’essere, il suo ruolo come istituzione nonché il motivo per cui, nonostante tutte le criticità che in essa si possono rinvenire, è ancora il luogo della conoscenza intesa come bene pubblico.
Sì, perché la conoscenza non è rivale e non è escludibile: se ne usufruisce una persona, questo non vuol dire che ne rimane meno per gli altri. Al contrario, è piuttosto una riserva che non si esaurisce. Inoltre, non c’è modo di escludere qualcuno dal suo utilizzo, una volta che la conoscenza viene resa pubblica. Queste due caratteristiche, insieme al fatto che è un bene di merito, cioè un bene che lo Stato ha interesse a fornire a tutti indistintamente, la contraddistinguono come una merce che non ha un prezzo sul mercato concorrenziale, in sé e per sé. Per dargli un prezzo, renderla un bene economico, poterla scambiare agevolmente e allocarla in maniera ottimale sul mercato, si può tentare di renderla privata: è questo il caso dei brevetti, ad esempio, o della ricerca a contratto. In effetti, un economista direbbe proprio che questa correzione è necessaria: se non esiste un prezzo di mercato, nessuno è incentivato a produrre conoscenza, perchè non ne potrebbe trarre profitto, con la terribile conseguenza che la ricerca verrebbe ad essere un bene fortemente sottoprodotto.
La dicotomia bene pubblico/bene privato, che ho brevemente cercato di riassumere, arrovella gli studiosi da molto tempo: varie correnti di pensiero si sono susseguite nel corso del tempo. Oggi, nella maggioranza dei casi, si è d’accordo che una parte di produzione della conoscenza debba essere a carico dello Stato e non possa essere completamente privata. Ciò non toglie, allo stesso tempo, che esistano incentivi economici per proteggere la ricerca e per incentivarne la produzione. Nel dibattito corrente tra i sostenitori della Repubblica della Scienza (aperta, gratuita e fuori dalle logiche di mercato) e quelli della Triplice Elica, che descrive il meccanismo virtuoso innescato da una strettissima collaborazione tra università e imprese, ci si accorge, guardando al dibattito, che in medio stat virtus.
In questa cornice, l’università deve trovare la sua dimensione bilanciata tra produttrice di conoscenza e di progresso, e motore economico: da un lato deve perseguire la sua libertà e autonomia, dall’altro è chiamata a seguire, anticipare e aiutare lo sviluppo, ascoltando attentamente e mettendosi al servizio dell’economia reale. Ecco perchè essa viene investita di ben tre ruoli, o meglio, con un termine più tecnico e sicuramente più evocativo, di tre Missioni.
Le Tre Missioni
La Prima missione è quella dell’insegnamento, che si basa sull’interazione con gli studenti. La Seconda Missione è l’attività di ricerca, grazie alla quale l’università dialoga con altre comunità scientifiche.
Con la Terza Missione le università entrano in contatto diretto con soggetti e gruppi sociali ulteriori rispetto a quelli consolidati e si rendono quindi disponibili a modalità di interazione dal contenuto e dalla forma variabili e dipendenti dal contesto. Questo, per aumentare la propensione delle strutture all’apertura verso il contesto socio-economico, esercitato mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze.
La Terza, la più complessa
Le università, attraverso la Terza Missione, si trasformano da Torri d’Avorio a centri di scambio, circolazione, trasferimento e valorizzazione della conoscenza. Questa Missione, quasi sempre trascurata, si rivela invece di vitale importanza: se l’università non riesce ad avere un reale impatto sull’economia e sulla società, sulla vitalità tecnologica e sull’innovazione di un Paese, rischia di vanificare le eccellenze che promuove al suo interno in termini di Ricerca e le competenze e conoscenze che radica nelle persone, nei futuri lavoratori, in termini di Insegnamento.
La Terza Missione sta diventando veramente centrale nel dibattito accademico, economico e sociale: è vista oggi come la più importante tra le tre, perchè ne è la condizione necessaria.
Esistono molte modalità con cui la Terza Missione prende forma, non tutte ancora pienamente riconosciute o inserite in procedure standard da parte delle università. Ogni istituzione può veramente assurgere a questo ruolo nella maniera più differente possibile: dipende dalle sue capacità, dal suo orientamento, dalla sua storia, dalle sue peculiarità e soprattutto dall’ambiente in cui risiede. Infatti un ateneo è, come si dice sempre in termini tecnici, immobile, determinato dalla società e dalle istituzioni che ha intorno, per le quali è a sua volta determinante. Dà forma alla conoscenza di un territorio, alle industrie che ne fanno parte, alle competenze tacite ed esplicite che si vengono a creare. Prende a sua volta forma dal territorio in cui è inserito, dalla sua storia, dalla sua cultura, dall’amministrazione che lo gestisce e dalle persone che vi lavorano. Difficilmente si sposta, come invece potrebbe fare una impresa se non dovesse trovare particolare stimolo innovativo o incentivi nel rimanere in un luogo.
Un problema di misurazione
Date causa e pretesto, quello che vorrei approfondire in questa sede non è tanto l’importanza della Terza Missione: dovrebbe già essere chiara, almeno a questo punto dell’articolo. Quello che invece è interessante è chiedersi come si possa misurare una attività così variegata, con che criteri si possa vedere concretamente l’operato di una Istituzione al di là della qualità dell’insegnamento (metrica utilizzabile per la Prima missione) o del numero di articoli accademici pubblicati da ogni professore (che invece andrebbe a misurare la Seconda Missione). Per la Terza Missione, date le sue caratteristiche molto contestuali e specifiche, trovare un quadro comparabile di misurazioni comuni è particolarmente difficile. D’altro lato, è necessario misurare la performance di ogni istituto in questo campo, una volta identificata la sua importanza, per valorizzare l’operato attraverso riconoscimenti e fondi, per creare spunti di best practices e per poter comparare le Università di tutto il mondo nel loro ruolo di tessitori della società ed economia che le circonda.
Un’utile distinzione, almeno in termini di misurazione della performance, può essere fatta tra:
- la Terza Missione di valorizzazione economica della conoscenza
- la Terza Missione culturale e sociale
Nel primo caso l’obiettivo è di favorire la crescita economica, attraverso la trasformazione della conoscenza prodotta dalla ricerca in conoscenza utile ai fini produttivi. La conoscenza prodotta dalla ricerca richiede ulteriori attività di contestualizzazione e applicazione prima di dispiegare potenziali effetti virtuosi sul sistema economico. Rientrano in quest’ambito la gestione della proprietà intellettuale, la creazione di imprese, la ricerca conto terzi, in particolare derivante da rapporti con l’industria, e l’interazione con strutture di intermediazione e di supporto, in genere su scala territoriale (incubatori, tecnopoli, centri di competenza e di servizio). Appartiene alla logica della valorizzazione economica il fatto che, a qualche stadio del processo, la conoscenza prodotta dal sistema pubblico di ricerca, per sua natura pubblica e inappropriabile, assuma invece la natura di un bene privato.
Nel secondo caso, al contrario, vengono prodotti beni pubblici che aumentano il benessere della società. Tali beni possono avere contenuto culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali, scavi archeologici, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio della comunità), educativo (educazione degli adulti, lifelong learning, formazione continua) o di consapevolezza civile (dibattiti pubblici, ad esempio). Per la fruizione di tali beni non è previsto il pagamento di un prezzo di mercato.
Il Trasferimento Tecnologico e di Conoscenza
Il Trasferimento Tecnologico (TT) ha come scopo quello di migliorare il flusso di conoscenze, tecnologia e idee. Questo offre, da un lato, opportunità alle imprese (già esistenti o nuove) e alle istituzioni di guidare l’innovazione economica e sociale; dall’altro, permette alle università e ai Centri di Ricerca di perseguire un tipo di ricerca e insegnamento che abbiano una connessione con la realtà. Negli ultimi anni il concetto stesso di Trasferimento Tecnologico, fulcro della Terza Missione, è passato dal più tradizionale approccio di commercializzazione e appropriazione verso un approccio sicuramente più olistico ed integrato, che include anche la collaborazione con le imprese e la divulgazione dei risultati di ricerca. Il TT è un processo lungo e rischioso, che coinvolge molti fattori e attori degli ambiti più diversi. Il prodotto dell’attività di ricerca è sia la nuova conoscenza (tecnologia, materiali, pubblicazioni…), che i ricercatori stessi (con il loro know-how e competenze): questi devono essere “trasferiti”, attraverso determinati canali (come le pubblicazioni, la consulenza, la ricerca a contratto o in collaborazione, la creazione di spin-off…) ad una comunità di utilizzatori finali che vanno dalle piccole e medie imprese ai cittadini, dai governi alle istituzioni più complesse, come l’Unione Europea. Ma non finisce qui, perché, come si è evidenziato recentemente, il trasferimento non ha senso se non crea impatto (ad esempio nuovi posti di lavoro, benessere, innovazione di prodotto, processo e servizio…). In passato gli indicatori tendevano a misurare solo indicatori di output, come il numero di spin-off e start-up create oppure il numero di licenze autorizzate. Oggi invece si parla di modalità di utilizzo e non di appropriazione: il successo delle collaborazioni, per esempio, non è solo misurato sulla base dei risultati di profitto, ma anche sulla qualità della relazione tra gli agenti. Data la crescente importanza attribuita al raggiungimento di un trasferimento efficace, la scelta degli indicatori è cruciale, poiché in grado di influenzare anche i risultati stessi.
Una nuova proposta
Nei Paesi Europei, come si diceva, sono state adottate le pratiche e le metriche più disparate, sia qualitative che quantitative. Come si legge nel Report “Knowledge Transfer Metrics – Towards a European-wide set of harmonised indicators” (2020) è necessario, oggi più che mai, un framework comune, che armonizzi alcuni indicatori ma che non dimentichi le specificità contestuali. Gli indicatori sono stati suddivisi in indicatori di input e di output. I primi evidenziano le caratteristiche specifiche dell’istituzione di ricerca considerata (strategia, maturità e dimensione, spesa in ricerca…) e l’ambiente in cui è inserita (spesa di ricerca nazionale, investimenti pubblici nel trasferimento tecnologico, disponibilità di capitale e infrastrutture…). I secondi invece guardano alle attività specifiche di trasferimento (le tradizionali misure come la consulenza, il numero di brevetti ecc…) e all’impatto sociale, a lungo termine (nuovi prodotti sul mercato, cambiamento culturale, benefici sociali ed economici).
Conclusioni
L’università ha un ruolo nella società che va ben al di là di quello tradizionalmente riconosciutole. La sua Terza Missione dà senso e significato alle prime due: ci deve essere una connessione tra la Repubblica della Scienza e il Regno della Tecnologia, l’una deve collaborare e farsi contaminare dall’altro. Devono stabilire una connessione, devono avanzare di pari passo, perché non c’è movimento se la conoscenza non risponde alla realtà e la realtà non impara dalla conoscenza. La collaborazione è difficile, non lo si nega, ma è per questo che ogni istituzione sta cercando il proprio linguaggio di contaminazione, che meglio risponda alle esigenze che si trova ad affrontare. A volte non ci si impegna abbastanza, a volte non si hanno risorse o competenze adatte: vale la pena allora studiare, guardare e valorizzare i tentativi diversi, sperimentare e creare nuovi modi, testandoli e rendendoli best practices. Per questo è necessario guardare sicuramente all’impatto sul lungo termine, e ci vorrà tempo. Il dibattito su questo tema non si può né si deve fermare in un mondo in cui l’innovazione è sempre più collaborativa e la conoscenza deve essere condivisa perché acquisti significato reale. Nel trasferirla, metterla a disposizione della società e delle sfide che deve affrontare, l’università deve seguire la sua vocazione artistica con una buona dose di creatività.