Sull’uso improprio delle classifiche
Di recente abbiamo affrontato con Alberto de Bin la questione della lettura dei nostri ranking. Alberto ha sottolineato un aspetto molto importante, ossia il legame tra il valore riportato nei ranking di Education Around e il sostrato sociale, economico, territoriale, con il quale gli atenei necessariamente si confrontano; che del resto ben si inserisce nel filone delle discussioni sull’importanza della Terza Missione dell’Università, messa in luce da Laura Porta qualche settimana fa.
L’idea che è emersa è proprio che il legame tra territorio e università sia un collegamento a doppio filo: l’università dà al territorio, e il territorio agevola la proliferazione di realtà produttive non solo economiche, ma anche di conoscenza, intesa in senso ampio. Cosa succede quando questo reciproco scambio poggia su una condizione di difficoltà economiche generalizzate, come nel caso di gran parte delle realtà meridionali? Interrogarsi sul perché di questa mancanza è legittimo: potrebbe essere dovuto ad una casualità oppure a politiche scarsamente avvedute; ma in questo articolo mi atterrò ai fatti.
Per avere una visione quanto più lungimirante e completa possibile, che necessariamente deve appartenere a chiunque osservi la realtà con spirito critico e voglia di migliorarla, bisogna tener conto di una serie di fattori.
I trasporti come metafora di un movimento: la SVIMEZ e la realtà meridionale
Ad occuparsi di un’analisi a 360° dell’evoluzione dell’Italia meridionale è la SVIMEZ (Associazione per lo SViluppo dell’Industria nel MEZzogiorno), un’associazione senza fini di lucro che ambisce ad incentivare lo studio sulla condizione economica del mezzogiorno, al fine di migliorare le politiche di sviluppo di queste aree.
Le analisi della SVIMEZ partono da una constatazione, dalla quale non si può prescindere: la coda delle penisola gode di un livello di benessere inferiore rispetto al Centro e al Nord Italia. Spesso non si parla soltanto di carenze in ambiti dove il Nord è avvantaggiato per geografia territoriale (come, ad esempio, di collegamenti veloci con il resto d’Europa), ma di disagi strutturali dovuti ad un basso afflusso di fondi statali. Quando si dice “il Sud è arretrato”, per esempio, si tiene conto del fatto che la TAV si fermi a Salerno, che le autostrade – eccetto per i grandi centri abitati – vengano sostituite da strade statali? In molti casi la linea ferroviaria ha delle falle di sistema tali da isolare interi territori.
Solo nel 2019 si è stimato che il divario infrastrutturale del Mezzogiorno, per quanto riguarda proprio l’Alta Velocità, mostri circa 1170 km di linea localizzati nel Nord e solo 180 km nel Sud. Nel rapporto Svimez 2019 viene sottolineato come il declino delle infrastrutture pubbliche, percepito in parte anche al Nord Italia, al Sud abbia avuto un impatto assai più rilevante e grave: la rete ferroviaria, che nel Centro-Nord è diminuita solo del 6,3%, al Mezzogiorno ha visto una riduzione del 27,7%; le rete autostradale ha avuto una sorte simile.
Mi concentro soprattutto sui trasporti perché in primis la questione è ben più complessa e meriterà una serie di articoli più dettagliati (come mostrano le circa 180 pagine annuali dei rapporti Svimez); inoltre, sono la mobilità e la velocità che caratterizzano il nostro mondo: siamo immersi in flussi che corrono, scambi che si accavallano, e la fluidità dello spostamento di capitale umano è lo specchio del movimento di conoscenze al quale tendiamo. Se viene meno la mobilità, si è tagliati fuori da un sistema.
È questa la condizione in cui il Sud Italia si trova: tagliato fuori?
Questo discorso non poggia su rumors, quanto piuttosto sui dati: i numeri spesso parlano bene. Quella del Sud arretrato non è soltanto una realtà sociale, ma è una questione tristemente politica. Rendersene conto vuol dire anche sollecitare una ripresa dell’Italia, soprattutto in un anno come questo: come sottolinea Bruno Manfellotto ne L’Espresso del 12 Aprile 2021, «o si fa ripartire il Sud, o la crisi del Covid-19 non finirà mai». Agli occhi di chi ha una coscienza critica, non è pensabile guardare all’Europa, se prima non si cerca attivamente il sanamento delle frazioni interne.
Una scelta o un caso: la questione meridionale dell’università
E qui veniamo alla questione che, in quanto giovani che si occupano di educazione, ci tocca di più: la gestione delle iniquità universitarie sul territorio italiano. Sempre i rapporti Svimez degli ultimi anni ci danno un’immagine chiara del paese: uno dei problemi che più preoccupa la realtà culturale oggi è l’emigrazione studentesca verso il Nord Italia (alla quale abbiamo anche dedicato una puntata del nostro podcast Accademico dal titolo Migrazione Accademica). Mobilità umana vuol dire anche spostamento di capitale: secondo la Svimez il fenomeno dell’emigrazione studentesca causa annualmente al Sud una perdita complessiva di circa 3 miliardi di euro, che vengono trasferiti al Nord.
Si può pensare che il fenomeno sia del tutto casuale, ma si può anche credere che vent’anni di gestione di politiche universitarie che puntano su poche, attrattive eccellenze abbiano lasciato una serie di importanti strascichi nelle altre realtà. Resta da analizzare quanto e come lo stato delle cose sia riequilibrabile identificando i correttivi idonei, individuabili solo sulla base di un’analisi idonea, per evitare che lo Stato, paradossalmente, seppur inconsapevolmente, continui a remare contro se stesso.
Nel titolo del paragrafo prendo in prestito una metafora di un libro incentrato sullo studio specifico del fenomeno universitario post crisi economica del 2008, La questione meridionale dell’Università di Mauro Fiorentino. Al di là della trattazione specifica, che analizza nel dettaglio le vicende universitarie italiane negli anni dal 2008 al 2015, ritengo che sia un ottimo punto di partenza quantomeno per instillare il dubbio che i piccoli centri universitari, soprattutto quelli meridionali, più deboli già perché sorti in realtà territoriali poco felici, sono costantemente messi a dura prova da disegni poco previdenti.
Facciamo per un attimo un salto indietro per soffermarci su come siano distribuiti i finanziamenti universitari su territorio italiano: l’assegnazione dei fondi è regolamentata dal FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario). In questo documento, estremamente complesso dal punto di vista economico, in alcuni punti anche alquanto oscuro, si trovano tutte le norme che dettano quanti soldi ogni singolo ateneo deve ricevere.
Trovo che ci siano almeno due fattori da mettere in discussione, uno ideologico e uno strutturale.
Partiamo dal problema strutturale, ossia come questi fondi siano stati ripartiti negli anni. Nel grafico di seguito, ripreso dal libro di Fiorentino, si mostra chiaramente come i fondi statali di finanziamento delle università pubbliche abbiano una chiara polarizzazione nei propri movimenti: tanti soldi al nord, tanti pochi al sud.
Figura 1. Incrementi del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) nelle università statali italiane tra il 2001 e il 2009. (cfr. Fiorentino M. La questione Meridionale dell’Università, Editoriale Scientifica, Napoli 2015, p.93)
Figura 2. Riduzioni del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) nelle università statali italiane tra il 2009 e il 2014. (cfr. ivi, p.97)
I valori parlano da sé. In aggiunta alla situazione già molto precaria che emerge dalle statistiche SVIMEZ, evidenziata in parte nel paragrafo precedente, si direbbe che un occhio di riguardo abbia ‘protetto’ il Nord durante la crisi.
Allora verrebbe da chiedersi adesso se queste università che ricevono di più siano realmente meritevoli di questo di più; se siano, effettivamente, gli atenei più validi.
Ebbene, questo dubbio dàil la per aprire un secondo punto ideologico – a mio parere – di frattura: stiamo trattando un bene pubblico come un bene privato, esclusivamente votato al profitto? Basare il sistema di finanziamenti su una ipotetica meritocrazia, tra l’altro, a questo punto, truccata dall’afflusso stesso di ricchezza, vuol dire applicare a un sistema di natura pubblica quale l’università una metodologia di funzionamento privata, quasi ‘aziendalistica’.
Mi rendo conto che il discorso possa essere complesso, quindi cercherò di spiegarmi: l’idea di premiare un ente per i suoi risultati è un’idea che può funzionare nell’ambito di un’azienda privata, ma non nel caso di un bene pubblico. A maggior ragione se il bene in questione è quello dell’istruzione, che ha il sacrosanto diritto di essere tutelato: le contaminazioni aziendali nel sistema universitario ci sono, si chiamano università private e vengono stipendiate innanzitutto dalle rate astronomiche che gli studenti versano annualmente.
Trovo il sistema ancor più degno di attenzioni se si pensa che uno dei parametri che pesano di più nella ripartizione dei fondi (circa il 25% del FFO), ossia la qualità della ricerca (VQR), è in realtà un parametro piuttosto omogeneo nelle varie università pubbliche: da Catania a Trento la ricerca universitaria è eccellente, si producono studi di rilievo nel panorama nazionale e internazionale. Sorvolando sul costo stesso che la stima della VQR comporta e sulle varie critiche che potrebbero essere mosse alla VQR, riprendo qui ancora Fiorentino, che dedica un’analisi piuttosto accurata a questo calcolo (cfr. Fiorentino, cap.5).
Figura 3. Qualità media della produzione di ricerca delle università statali, in una scala da 0 a 1: IRAS1 normalizzato medio regionale (elaborazione dati Anvur-VQR). (cfr. ivi, p.175)
Il VQR è composto da due indicatori: l’IRAS1, ossia l’indicatore della qualità della ricerca dell’intero corpo docente, e l’IRAS2, che misura la qualità della ricerca dei soli neopromossi e neoassunti. Per la ripartizione dei fondi universitari ha valore esclusivamente l’IRAS1. La fig. 3 mostra la qualità media della ricerca delle università statali, divise per regioni di appartenenza, in un valore in scala da 0 a 1. Visamente si può già cogliere quanto la spaccatura, sebbene presente, non sia poi così netta. Ma la domanda da porsi è: la variazione del VQR tra le università delle varie regioni è statisticamente significativa?
Figura 4. Test di omogeneità dei voti medi per unità di prodotto assegnati alle università italiane mediante VQR: sulle ascisse il numero di prodotti attesi e sulle ordinate l’IRAS1 normalizzato. La linea retta rappresenta il valore medio nazionale m = 0,54 mentre le curve riportano i limiti di confidenza al 5% di probabilità, calcolate come m ± 1,96 x sn, dove sn = s / n1/2. a) s = 1,50; b) s = 1,75 (cfr. ivi, p.84)
Parrebbe proprio di no. Dalla fig. 4 si può evincere come, eccetto qualche raro outstanding, la distribuzione risulta essere abbastanza omogenea. In altre parole, nella maggior parte delle università il livello medio della qualità della produzione scientifica è pressoché indistinguibile.
Alla luce di tutto ciò, viene da chiedersi: cosa pesa tanto in una distribuzione dei fondi universitari così disomogenea?
Cos’è l’università ‘migliore’? Quella che offre più servizi, gli stessi servizi che possono essere erogati grazie ai maggiori fondi ricevuti? Ne deriva che questa stima è operata in base a elementi che sono solo un corollario della questione principale, ossia quanta cultura di qualità è prodotta all’interno di questi centri. Stiamo valutando quindi quegli stessi parametri che dipendono dalla ricchezza. Stiamo stimando le qualità per distribuire più ricchezza sulla base della ricchezza. E per fare questa stima, stiamo sperperando altra ricchezza. Immagino siate tutti in grado di vedere il serpente che si morde la coda.
L’università ‘migliore’: un concetto spinoso
Approfondiamo. Lo scenario appena descritto pone un altro problema ideologico, che è legato a un fattore squisitamente linguistico. Considero la semantica delle parole una questione molto importante, oserei dire determinante – deformazione da linguista, ndr. Possedere un linguaggio, vuol dire possedere dei concetti, come ci ricorda anche Chomsky. Ne deriva che le parole evocano un immaginario potente, che crea idee, le quali a loro volta si cementificano e diventano facilmente convinzioni. E le convinzioni come quelle che abbiamo esaminato sin qui, se non ponderate criticamente, portano a studenti di serie A e studenti di serie B.
Anche qui bisogna forzare un po’ il sistema per comprendere il pensiero alla base. La presentazione di un centro universitario ‘più valido’ di un altro, spingerà quegli studenti che possono affrontare le spese da fuorisede a spostarsi verso questo polo universitario. Nella ripartizione dei fondi gestita in base al FFO, si stima un costo di base per ogni studente, che viene ricalcolato annualmente e si aggira intorno ai 6000 € per individuo: se ogni personache sceglie un’università del Nord fa guadagnare al polo universitario un tot di denaro, si capisce bene che la ricchezza che migra verso Milano (che considereremo in questa sede Nord per antonomasia) è enorme.
Chiaramente un afflusso così ingente di sostanza e di persone comporta l’apertura di nuovi corsi di studio e di nuovi canali, che implicano a loro volta l’assunzione di più docenti. Una notizia buona, se non fosse che il mercato (mi si conceda ancora una metafora) dei docenti è abbastanza saturo: questo vuol dire che nuovi concorsi non comportano nuove assunzioni ma, ancora una volta, spostamenti circolari di capitale umano (stavolta docenti di università meridionali e piccoli centri) verso i grandi atenei.
A sua volta un meccanismo del genere lascia le università ‘peggiori’ scoperte, esposte alla penuria di risorse: riduzione dopo riduzione, chiusure di corsi uno dopo l’altro, questi atenei arriveranno a chiudere definitivamente i propri battenti. Le implicazioni disastrose per quella parte di giovani che non possono affrontare, per questioni economiche, familiari, personali, una vita da fuorisede, anche in questo caso, può essere facilmente dedotta senza ulteriori input. Ma anche questo pensiero va scardinato: non rimane ‘giù’ solo chi non ha la possibilità materiale di andar ‘su’. C’è una parte di popolazione che vuole rimanere al sud, ma si vede negata questa possibilità da una realtà che non riesce ad agevolarla. Se lo sradicamento nel resto d’Italia è una scelta, spesso nel Mezzogiorno è una necessità.
La terminologia può avere anche risvolti lavorativi ulteriormente impattanti. L’idea che si studi in un’università ‘migliore’ genera come conseguenza la convinzione che lo studente stesso che esce dall’università ‘migliore’ sia ‘migliore’. Vuol dire che nell’immaginario pubblico ci saranno giovani studiosi più validi non per l’effettiva carriera universitaria, ma perché escono da un centro considerato più meritevole. Cosa potrebbe mai accadere se questa idea si affermasse? Immaginate un futuro (ci si augura distopico) in cui, a parità di meriti, lo studente di ingegneria del Politecnico di Torino verrà selezionato al posto dello studente di ingegneria dell’ ‘Università di Canicattì’, esclusivamente in virtù della sua provenienza. Questa forma di classismo accademico, del resto, può tranquillamente far leva sull’opinione pubblica, se la nostra classe politica è la prima a ritenere che esistano «università di serie A e università di serie B» (cfr. Renzi, discorso di inaugurazione dell’anno accademico 2014-2015 del Politecnico di Torino, 18 Febbraio 2015).
Ma esiste un panorama nel quale i ranking – prodotti da Education Around tanto quanto da molte altre realtà – possano essere utilizzati in maniera corretta?
È necessario credere di sì. I numeri sono un ottimo mezzo di semplificazione della realtà, che è l’unico modo per prendere coscienza delle tendenze generali e per poter intervenire su queste dinamiche: ridurre la complessità del reale è quindi necessario per comprendere. Allo stesso tempo, una volta compreso, è altrettanto rilevante complicare nuovamente questa realtà, facendo entrare in gioco tutte quelle variabili che, nel primo step, erano state messe da parte. Infine, prendere consapevolezza di quest’uso improprio delle classifiche può costituire il primo passo per cambiare il sistema dall’interno, stimolando un approccio critico.
Per corretta si indica una lettura dei dati che porti a un’incentivazione nelle politiche di equilibrio nazionale, piuttosto che di squilibrio, una crescita di un sistema universitario più omogeneo, egualitario negli intenti, che conceda le medesime occasioni non soltanto a chi è fortunato per nascita o per possibilità, ma anche a chi, pur non essendolo altrettanto, gode dei medesimi diritti. In conclusione,l’auspicio è di utilizzare questa realtà e questo sistema di valutazione per operare nel rispetto di un principio costituzionale intoccabile.