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La soluzione al Gender Gap, un problema di percezione

Gender Gap, un problema di percezione?

Digitando su Google “Italia 1990” compare una serie infinita di articoli legati ai mondiali di calcio. Sì, perché quell’anno è stato importantissimo per il nostro paese: dopo una lunghissima attesa finalmente riusciamo ad ospitare il FIFA World Cup. Non si parla, però, di un altro avvenimento storico che accade nello stesso periodo, dopo una lunghissima attesa. Il tasso di iscrizione femminile al primo anno di università supera quello maschile con un trend destinato a crescere sempre di più, relegando il genere maschile nella parte bassa del grafico qui proposto. È una svolta epocale se consideriamo l’accesso all’educazione come il primo fondamentale step alla parità di genere (analisi EA; ISTAT, 2017).

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Da quell’anno, però, cosa è realmente cambiato? Premettiamo innanzitutto che la problematica del Gender Gap non è solo italiana. Anzi, il nostro paese è stato uno dei primi (il secondo, dopo la Norvegia) a legiferare a riguardo. Nel 2011 la legge Golfo-Mosca introduce le quote rosa per i consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa: le donne devono rappresentare il 20% del consiglio per la prima elezione ed un terzo per le successive.

Continuiamo la premessa, precisando (come è d’obbligo per i temi più spinosi) che la questione è spinosa e i dati presentano spesso bias o sono incompleti nell’analizzare la questione. Il The Economist, infatti, scriveva il 1° agosto del 2017 che, considerando la stessa azienda, con medesimo ruolo ed eguale funzione, la differenza di salario tra uomo e donna si assottiglia così tanto da scomparire.

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Dall’alto verso il basso (% di differenza salariale): tutti i lavori / stesso livello / stesso livello e stessa azienda / stesso livello, azienda e funzione

Dobbiamo però considerare che, togliendo queste limitazioni, le differenze di salario salgono ad un 20% circa (i famosi 80 centesimi delle donne per un euro guadagnato da un uomo). Questo significa necessariamente che le donne sono costrette in lavori a più basso valore aggiunto o in ruoli relativamente più marginali rispetto agli uomini. In economie di libero mercato in cui le risorse vengono allocate in modo da massimizzare il rendimento e l’efficienza, infatti, stiamo dicendo che consideriamo le donne come economicamente meno utili degli uomini. Ed in società capitaliste con economie di libero mercato, questo è un problema.

La situazione in Italia è simile, anche per i neolaureati o giovani professionisti. Abbiamo fatto uno studio molto semplice, analizzando lo stipendio mensile di tutti i laureati ad 1,3 e 5 anni dalla laurea magistrale (un campione di 233’246 lavoratori – AlmaLaurea 2017), considerando qualsiasi ruolo e qualsiasi area disciplinare dei laureati. Il risultato è netto: in media lo stipendio di una donna è il 78% di quello di un uomo (analisi EA).

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Valori in Euro

Non parliamo di aziende comparabili, nello stesso settore e con stesso ruolo, parliamo di tutti i laureati magistrali. Come prima, stiamo dicendo che mediamente le donne laureate da 1,3 e 5 anni, hanno un valore aggiunto (in ottica di mercato e quindi di retribuzione) minore di quella degli uomini, siano esse geologhe, infermiere o architetti. Un bravo analista mi farebbe notare, d’altro canto, che l’analisi non è corretta poiché ci sono alcuni lavori che, indipendentemente dal genere, hanno un salario più alto di altri; in quei settori, a volte, ci può essere una maggioranza schiacciante degli uomini. Permetteteci di rimarcare come sia proprio questo il vero problema. I 22 centesimi di differenza per ogni euro guadagnato, sarebbero molto meno rilevanti se non rappresentassero un problema sociale, ma solo economico.

La domanda che dobbiamo porci a questo punto è: risolviamo qualcosa obbligando le aziende ad assumere una percentuale più alta di donne? Forse sì, e faremmo del bene alle imprese. È stato studiato che avere un numero maggiore di donne nei CdA non ha un significativo impatto sui profitti delle aziende ma ne riduce il rischio (Sole 24 Ore, 2017)  – uno stesso profitto con un rischio più basso significa aumentare il valore finanziario dell’impresa. Quindi sì, sarebbe fattibile. Seppure non si possano presentare dati a riguardo, vien però da pensare che l’imposizione legislativa possa cambiare le percentuali ma non la percezione, ancora saldamente ancorata alle più profonde convinzioni degli individui:  quelle che il buoncostume non ci permette di esplicitare, che le società mascherano sotto l’armatura effimera dei buoni propositi. Ovvero, la percezione che in termini lavorativi una donna valga meno di un uomo.

Ma allora come cambiare le percezioni? Sicuramente grazie ai role model: dobbiamo vedere sempre più donne in posizioni di prestigio e di “potere”. È un cane che si morde la coda. Forse, o forse no. L’ambiente universitario, se ci pensiamo, è perfetto per iniziare, pieno proprio di quei futuri professionisti che comporranno la forza lavoro del sistema economico di cui si è trattato sopra. E sì, è pieno di role model: i professori universitari. Visti nella maggior parte dei casi come figure sapienti e di potere (hanno il diritto e dovere di giudicarci, di decidere se passeremo un esame o meno), i professori sono coloro che ci formano, aiutandoci a costruire le basi della nostra futura carriera. Talvolta, addirittura dei mentori. A questo punto la domanda sorge spontanea: qual è la situazione dell’università Italiana quando si parla di Gender Gap?  Ecco, non è messa granché bene. I laureati donne sono il 58% della popolazione universitaria, i ricercatori donne scendono però al 48%. I professori associati di genere femminile sono solo il 37% mentre scendiamo al 22% (ventidue) quando parliamo di professori ordinari (Repubblica, 2017). Davvero ci stupiamo del Gender Gap, quando è proprio nel più importante periodo di formazione che passiamo l’idea, ai nostri ragazzi, studenti, futuri professionisti, che esso sia lecito? Se l’università è meritocratica e se i professori sono persone che hanno raggiunto un ottimo livello di carriera, perché ci sono così poche donne?

È proprio da qui che voglio far partire una provocazione ed un appello. La situazione dell’università italiana per quanto concerne il Gender Gap  è a dir poco surreale. Mi piacerebbe che chiunque parli dell’argomento scelga una delle due opzioni: o 1) la carriera all’interno dell’università non è meritocratica, oppure 2) le donne sono realmente meno preparate degli uomini (affermazione da dimostrare, visto che le analisi, ad oggi, dicono il contrario).

Se si vuole evitare l’imbarazzo di sostenere una delle due posizioni sopra riportate, bisogna agire e farlo in fretta.

Abbiamo la capacità di impattare in maniera forte sulla percezione della futura classe dirigente e dei futuri professionisti, partendo dall’università e soprattutto senza andare a scomodare aziende che dovrebbero essere libere di poter scegliere la loro governance liberamente. Mi permetto un’opinione solo nel finale di questo articolo: nella più dinamica e complessa società che il mondo abbia mai visto, qualsiasi problema e qualsiasi soluzione può essere riconducibile e ritrovabile nell’educazione. Sta a noi come opinione pubblica e ai nostri decisori politici scegliere se vogliamo affrontare il problema partendo dalla sua radice o semplicemente potare i rami di un albero che sta lentamente perdendo le sue foglie.

 

Fonti:

AlmaLaurea, (2017). Condizione occupazionale dei laureati. [Disponibile a: https://www2.almalaurea.it/cgi-php/universita/statistiche/tendine.php?config=occupazione].

ISTAT, (2017). Serie storiche sull’istruzione. [Disponibili a:  http://seriestoriche.istat.it/index.php?id=1&no_cache=1&tx_usercento_centofe%5Bcategoria%5D=7&tx_usercento_centofe%5Baction%5D=show&tx_usercento_centofe%5Bcontroller%5D=Categoria&cHash=1b020e5419ca607971010a98271e3209].

Repubblica, (2017). Università, solo poche donne al vertice della carriera da prof. [Disponibile a: http://www.repubblica.it/scuola/2017/03/07/news/universita_al_top_della_carriera_da_prof_poche_donne-159971996/].

Sole 24 Ore, (2017). I mercati brindano alle donne nei CdA. [Disponibile a: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-10-10/i-mercati-brindano-donne-cda–211052.shtml?uuid=AENGp0iC&refresh_ce=1].

The Economist (2017). Are women paid less than men for the same work?. [Disponibile a:  https://www.economist.com/graphic-detail/2017/08/01/are-women-paid-less-than-men-for-the-same-work].

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