Faccio e capisco, per una scuola che progetta

Diceva un filosofo nostrano, Giambattista Vico, che tutto ciò che sappiamo veramente lo sappiamo perché lo abbiamo fatto. Con lui sarebbero d’accordo i fautori della teoria del project-based learning (PBL). L’idea di fondo infatti è la stessa: la vera conoscenza non è nozionistica, come ricordarsi quando è stata la rivoluzione francese e quando è morto papa Pio IX, la vera conoscenza è capacità di fare e progettare nel mondo. Ciò che oggi si chiama conoscenza procedurale e problem solving.

Certo, il nozionismo è la base fondamentale, conditio sine qua non, di una buona educazione. Se ci si ferma ad esso però non si è andati molto lontani. Tanto più che anche un Pico della Mirandola redivivo oggi si vedrebbe umiliato dalla potenza dei motori di ricerca. Potenza che tutti tengono in tasca, grazie agli smartphones. Oltre a ciò, il modello frontale di insegnamento – lo stesso che in varie forme pervade ancora tutto il nostro sistema scolastico – prevede che gli studenti siano ricettori passivi di informazioni, che devono essere pronti a ripetere nel modo più simile possibile rispetto a come le hanno ricevute. Gli effetti di questo metodo sulla capacità creatività degli studenti non sono difficili da immaginare.

In sintesi (qui e qui trovate maggiori informazioni), l’apprendimento basato su progetti prevede che gli studenti debbano portare a termine un progetto che può durare da pochi giorni fino a interi mesi, che sia ovviamente adeguato rispetto alle competenze dello studente e che gli permetta di costruirsi da solo la strada verso il raggiungimento dell’obiettivo.

Ciò ha diversi vantaggi:

Costringe ad una forma di apprendimento multimodale. Se costruisco il modellino di un vulcano sono costretto ad usare più della semplice memoria che mi serve per imparare le dinamiche su una pagina di libro di testo. Dovrò usare l’immaginazione, i sensi, sviluppare l’abilità manuale, la capacità critica e così via.

Pone lo studente in una situazione molto più vicina a quella in cui si trova in ogni dimensione della vita. Non mi riferisco qui solo alla sfera lavorativa. Andare a fare la spesa ad esempio richiede delle competenze – minime a dir la verità – molto più simili a quelle che sono in gioco nel portare a termine progetti che non a quelle richieste per imparare mnemonicamente dei dati. La fase di progettazione, la fase di esecuzione, la fase di controllo sono presenti nel PBL e nelle attività quotidiane, non nel modo di fare scuola frontale e nozionistico.

Costringe lo studente ad assumere un ruolo attivo, a mettersi in gioco e a credere in ciò che sta facendo, perché – proprio come al di fuori della scuola – se non credi ai tuoi progetti difficilmente lo farà qualcun altro. In questo caso l’insegnante.

Allontana l’alunno dalla cosiddetta comfort zone. Il fatto che la strada verso il compimento di progetti sia nelle mani dello studente, può – almeno in un primo momento – disorientarlo e confonderlo. Niente di male, anzi ciò che oggi ci disorienta e confonde continuerà probabilmente a farlo anche domani se non ne accettiamo la sfida.

Chi scrive non crede che il metodo PBL sia la panacea ad ogni male della scuola. Come si diceva un sano nozionismo deve comunque e necessariamente rimanere. Sarebbe però un primo passo nella direzione di avvicinamento della scuola al mondo che la circonda.

Nello spirito di tutto il mondo è paese, abbiamo iniziato con un filosofo napoletano, chiudiamo con la citazione di un pensatore cinese, Confucio:

Sento e dimentico
Vedo e credo
faccio e capisco

 

 

 

[Immagine tratta da google images]

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