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Il Destino Incerto dell’Università Italiana

Destino incerto, anziché manifesto, è quello che si prospetta per l’università italiana nel suo complesso, che risulta evidente dai due anni di attività e di analisi di Education Around. Si pone l’enfasi sul destino, e non sullo stato delle cose, nella convinzione che una fotografia della situazione corrente e un’analisi di movimenti inerziali mostrino una condizione del sistema universitario italiano che non può essere ignorata. Sfruttiamo quindi la pubblicazione dei Rankings 2020, e la conseguente analisi di quasi 20.000 dati sulla condizione di oltre 250.000 neolaureati italiani, per proporre una breve riflessione complessiva sul futuro del sistema. Complessiva nel senso che le considerazioni che seguono (quando non specificato altrimenti) sono rivolte alla condizione media degli atenei e delle istituzioni italiane, e non alle eccellenze isolate. A rendere incerto il destino del sistema sono quindi tre punti cardine, su cui si giocherà la partita per il proprio futuro.

Uno: incapacità di congiungere una vocazione umanistica alle aspettative concrete degli studenti. Annosa e quasi paradossale questione sul ruolo dell’università, tra formazione della persona e formazione del lavoratore. Dibattito arido che nasconde un’evidenza tanto palese quanto sottaciuta: il sistema attuale fallisce su entrambi i fronti. In termini di ritorno economico, la politica ha lavorato per lo più ai margini, ampliando la no-tax area e proponendo piccoli incentivi di sostegno per gli studenti meno abbienti, senza capire il problema di fondo: studiare all’università in Italia non è tanto un problema di costi vivi (retta, vitto e alloggio) quanto di costo opportunità. Pochi numeri infatti bastano a spiegare in larga parte il fatto che l’Italia è in coda ai paesi europei in quanto a giovani laureati: il 40% degli italiani che inizia l’università non la finisce, il 50% degli studenti sono fuoricorso – tanto che quelli che completano il percorso di studi lo fanno con un ritardo medio di un anno (dati AlmaLaurea). E, a quel punto, hanno una probabilità di essere disoccupati o inoccupati ancora un anno dopo la laurea intorno al 40% (per i laureati magistrali). I laureati triennali guadagnano poi in media tanto quanto i diplomati di scuola superiore, tuttavia con quattro anni di ritardo. Fanno un po’ meglio i laureati magistrali, ma con sei o sette anni di stipendi mancati nel mentre. L’idea per cui l’università non abbia come unico obiettivo quello di trovare un lavoro o migliorare la propria condizione occupazionale è una narrativa che ha fornito un alibi vile a due generazioni di dirigenti non in grado di rispondere a questo declino strutturale ed annunciato.

È quindi una banale considerazione economica che porta i diplomati italiani a vedere negli studi universitari un margine di rischio enorme e una prospettiva di ritorno sull’investimento bassa, se non negativa. Prospettiva che potrebbe certo essere alleviata da interventi strutturali di sussidi agli studenti, borse di studio per necessità e per merito che vadano a coprire non solo i costi (moderati) di iscrizione, ma anche di vitto e alloggio, prestiti d’onore da privati a tassi azzerati fino al completamento degli studi per una quota che coprano gli stessi costi. E mentre nel nord Europa (ma anche in Inghilterra, nel Far East, e con molte contraddizioni in America) questi modelli sono ormai rodati al punto da attirare studenti italiani che oltre alle migliori prospettive di impiego ricevono così alloggi gratuiti, contributi mensili o annuali garantiti, prestiti da ripagare in venti o trent’anni, borse di studio ingenti erogate per meriti accademici, l’Italia resta impantanata nella palude delle certificazioni ISEE inattendibili, delle burocrazie asfissianti, del “fatta la legge trovato l’inganno”, e in ultima analisi di una scarsa volontà politica di portare gli investimenti richiesti ai livelli dei nostri competitors europei e globali.

Figura 1: Spesa pubblica in istruzione come % del PIL (dati Eurostat, 2019).

Insieme a questi investimenti sul corpo studenti perdiamo poi quei modelli di studio-lavoro che permettono agli universitari esteri di mantenersi non lavorando come camerieri bensì come assistenti di professori o esercitatori (possibilità da noi relegata ai dottorandi, talvolta non remunerata), o lavorando per la biblioteca e gli spazi di ateneo, o ancora nei centri di ricerca e negli uffici amministrativi, in cambio dei sussidi menzionati sopra (spesso accompagnati da uno sconto totale della retta, come nel caso dei Graduate Student Instructors o dei Teaching/Research Assistants nel mondo anglosassone), o di un vero e proprio stipendio. È quindi anche attraverso questa scarsa valorizzazione dello studente che tante facoltà si trovano a tradire la propria vocazione umanistica, dove lo spirito di formazione della persona si scontra con lo scarso (se non assente) coinvolgimento in una vita di Ateneo (life on campus), con una concezione degli esami come una inutile e noiosa necessità amministrativa – da essere somministrati a piacere, valutati a tempo perso, denaturati di ogni funzione pedagogica e formativa. I docenti più onesti hanno la dignità di non parlarne, considerando probabilmente le proprie inadempienze come esternalità necessarie di un sistema che era in flessione da ben prima di loro, su cui non hanno agenzia. Altri invece boicottano esami e valutazioni come atto dovuto, distorsione sessantottina, unico gesto possibile per ribellarsi al sistema dei diplomifici – di cui così ovviamente sono i primi promotori – o ad una burocrazia che pretende anche di fare loro rispondere a qualche decina di mail al giorno, un paio di ricevimenti alla settimana, magari un consiglio di dipartimento. E così, nell’inflazione valutativa accentuata in tante facoltà (e nell’intero livello magistrale dove il voto medio di laurea è oltre il 107), il sistema abdica al proprio mandato costituzionale – “capaci e meritevoli” –, non diventa occasione di riscatto per i “privi di mezzi”, perde più studenti per strada (pre- e post-laurea) di quanti ne riesca ad accompagnare alla gratificazione dell’impiego. Sopravvivono le lauree tecniche, e tanto basta a sostenere grossolanamente che solo quelle debbano esistere.

Non aiutano le favole mediatiche, che si mostrano anzi inadeguate a leggere ed analizzare la precarietà del sistema per quella che è, e rende la situazione ancora più grave l’incapacità di costruire un sistema di valutazione che tenga in considerazione differenze talmente evidenti da rendere quelli esistenti quasi paradossali. In questo senso si deve guardare al tentativo di Education Around di fornire strumenti ed analisi che si concentrino sulla funzione che gli atenei hanno per gli studenti. Analisi che – evidenziando differenze geografiche ed amministrative, isolando eccellenze in contesti altrimenti retrivi, svelando tanti limiti del sistema nel suo complesso – mostrano come l’università si inscriva dentro un più ampio scacchiere economico-politico, che la rende vulnerabile a scelte scellerate in campo di politica industriale, economica e amministrativa, dipendente a congiunture economico-sociali che escono dalle prerogative del MIUR e dei singoli atenei. E che richiede di allargare lo sguardo oltre gli orizzonti della regione, e della nazione.

Figura 2: destinazione degli studenti europei nel programma Erasmus+ 2017/2018 (fonte Commissione Europea, 2019).

Due: scarsa proiezione internazionale del sistema universitario nel suo complesso. Il Processo di Bologna, che ha portato all’unificazione dei crediti formativi europei (ECTS) e dei sistemi universitari nel modello “Bachelor + Master” (Triennale + Magistrale), è ormai giunto a compimento. Già la Commissione Europea di Junker avviò il discorso per un “oltre Bologna”. Il Processo di Sorbona, con obiettivo al 2025, vorrebbe unificare il sistema dei diplomi Europei (permettere quindi a tutti i diplomati europei di scuola superiore di accedere ad ogni università del continente), creare un sistema di certificazione unico (la EU Student Card) che renda rapide e gratuite le procedure amministrative e di iscrizione ad università estere, potenziare l’insegnamento in lingua inglese, richiedere ai paesi membri di investire almeno il 5% del PIL in istruzione. Processo che, stando ai numeri, potrebbe risultare letale per la tenuta del sistema universitario italiano.

Sebbene l’Italia sia tra i maggiori contributori netti in termini di studenti partecipanti al programma Erasmus sia in ingresso sia in uscita (Figura 2), la percentuale di studenti stranieri iscritti agli atenei italiani è tra le più basse d’Europa (5,3%), ampiamente inferiore alla media europea (8,8%). Fanno il doppio di noi Francia, Olanda, Danimarca, Repubblica Ceca. Il triplo Austria, Svizzera e Regno Unito. Percentuale, quella italiana, che scende al 3,5% se si considerano non gli iscritti stranieri, ma i laureati stranieri nel 2018. Italia come paese in cui trascorrere forse un semestre, ma non una laurea.

I campanelli d’allarme erano già tutti nostrani se il 45% degli studenti italiani si iscrive all’università nella stessa provincia in cui si è diplomato, percentuale che sale al 70% se si include la provincia adiacente. Fatto in parte indubbiamente dovuto all’assenza di sussidi, prestiti, borse di studio e modelli studio-lavoro discussi sopra. Eppure, nel paese con la ricchezza privata tra le più grandi al mondo (immobiliare ma anche liquida), vien da pensare che entrino in gioco da un lato fattori culturali, dall’altro una scarsa propensione degli studenti ad esplorare le differenze tra atenei, e un’avversione delle famiglie ad investire nella formazione universitaria dei figli lontano da casa – scelta comprensibile considerando i dati su tempistiche e prospettive occupazionali riportati sopra. Aneddotico ma significativo che il concetto di “fuorisede” non sia traducibile in inglese o in francese: non è lì una categoria eccezionale e di conseguenza da nominare. E così il paese resta immobile su logiche campanilistiche e provinciali, mentre in Europa si ragiona di mobilità internazionali su scala comunitaria ma ormai anche globale.

La liberalizzazione continentale dell’ingresso universitario, insieme ad una crescente propensità degli studenti europei a muoversi all’interno dell’unione, troverà l’Italia impreparata – salvo pochissime eccezioni. Ancor più significativamente, è una minaccia concreta per quel gruppo di atenei medi e piccoli del nord che eccellono in occupazione grazie a congiunture geografiche favorevoli, ma faticano a giocare sullo scacchiere internazionale. Cosa accadrà con generazioni di giovani italiani sempre più anglofoni, sempre meno valorizzati da politiche che accentuano lo scontro intergenerazionale, i cui orizzonti formativi si apriranno ad un continente dove gli atenei italiani faranno fatica a competere su tutti i fronti: non più economici, non meglio inseriti nel mondo del lavoro, poco internazionali, scarsamente finanziati. Talvolta costretti da assurde regole imposte da una macchina burocratica anacronistica pronta a tarpare le ali ad iniziative di indipendenza da parte dei più virtuosi – si ricordi il caso del Consiglio di Stato che impedì al Politecnico di aprire un corso di laurea interamente in inglese senza aprirne uno corrispettivo in italiano. L’obiettivo europeo della spesa in istruzione al 5% del PIL, ampiamente superato da vari paesi e quasi raggiunto dalla media comunitaria, resta oggi un miraggio per l’Italia (dove si attesta al 3,8%, Figura 1). L’integrazione della European Education Area prospettata per il 2025 diventa quindi una minaccia, anziché un’opportunità, per un sistema che pare attualmente incapace di adattarsi e programmare. Mancanza strategica che sposta in secondo piano gli investimenti insufficienti: perché non basta aumentare una voce di bilancio per rispondere alle criticità che hanno creato questo svantaggio strutturale difficilmente colmabile.

Tre: assenza di un pensiero strategico a quasi tutti i livelli, e di strategie a lungo termine. Cardine, questo, condizione e causa dei precedenti. Se il sistema è vulnerabile a decisioni comunitarie e congiunture economiche globali è d’altronde anche a causa dell’assenza di un “vincolo interno”, di una ragion propria che ne funga da guida. Università nel paese delle meraviglie: non sa dove vuole andare, quindi non importa che strada prende. A quasi tutti i livelli, nel senso che è condizione comune a diversi stakeholders, e diverse posizioni nelle catene di comando – fatto salvo per poche realtà (nelle istituzioni, nei media, nel privato, nel terzo settore) che sono riuscite a ritagliarsi un angolo di indipendenza per portare avanti la propria agenda. Manca, a livello organico, una strategia chiara e di lungo termine che risponda ai problemi sollevati sin qui (e nei due anni di analisi di Education Around): Come migliorare organicamente il tasso di occupazione dei laureati? Come aumentarne il numero? Come migliorare l’internazionalizzazione (in ingresso e in uscita, tra studenti e professori) degli atenei? Come (non solo quanto) aumentare massicciamente il finanziamento del sistema senza incorrere in spese improduttive? Come aumentare l’indipendenza decisionale senza favorire logiche clientelari? Come aumentare la competitività interna ed esterna degli atenei italiani, premiando i migliori? Che fare di atenei o dipartimenti che evidentemente non funzionano come dovrebbero? Come migliorare l’output di ricerca del sistema, e di conseguenza il posizionamento nei ranking internazionali? Come sopperire al vuoto lasciato dalla fine delle scuole di partito nella formazione e selezione della classe dirigente?

Che manchino le risposte è evidente, il timore è che manchi la volontà (e la capacità) di capire che sono queste le domande essenziali. E che ci si appoggi su un sistema che sopravvive per lo più di rendita, grazie a un retaggio novecentesco secondo cui all’università ha comunque senso andare – anche se non funziona. Una scommessa con un margine di rischio non indifferente.

Sono così un epifenomeno di questo vuoto strategico la scarsità di risorse (pubbliche e private) immesse nel sistema e tutti i problemi elencati nei paragrafi precedenti, ma anche la difesa strenua dei vantaggi acquisiti, l’università intesa come agenzia di collocamento, i resti vestigiali di schemi baronali, il ruolo incoerente dei sindacati, l’assenza totale di un fronte giovanile compatto che proponga una direzione da intraprendere e pretenda di essere ascoltato. Lo sono anche il qualunquismo dell’opinione pubblica e l’assenza di una critica mediatica seria, capace di andare oltre la cronaca, di ascoltare i dati, guardare oltre i confini nazionali ed analizzare le cause della precarietà del sistema.

Il risultato è quindi un’università in ordinaria amministrazione. Sia nel senso di sistema che è intento ad amministrare conti e perdite per oggi e domani senza rendersi conto della sua complessiva condanna, a tratti apparentemente inesorabile: chiuso com’è nella propria auto-referenzialità, non percepisce l’accelerazione brusca che tutte le strutture esterne ad esso – in particolar modo gli analoghi sistemi universitari dell’Europa occidentale e dell’estremo oriente – hanno subito negli ultimi due decenni. Ma anche nel senso di dirigenza che intende come la sfida amministrativa quella di ordinare gli ordinari, in una condizione dove la pretesa d’imparzialità di valutazioni centralizzate e nazionali è alla luce del giorno falsata da stratagemmi e criteri che ripropongono le croniche strutture clientelari e baronali di un sistema che nel ’68 ha forse cambiato facciata ma non natura. La nota storia dell’orchestra del Titanic che cerca di tenere il tempo mentre la nave affonda.

Resta una cosa da fare, all’interno della discontinuità e frammentazione di un apparato in cui c’è tanto di sbagliato ed inefficace, ma anche alcune vette qualitative che non devono essere ignorate. Resta da studiare cosa funziona, e capire perché. Studiare se è un modello scalabile, analizzarne le strutture e la capacità adattiva. Guardare l’insieme e disaggregarlo secondo coordinate varie: atenei, dipartimenti, gruppi disciplinari, livelli di laurea. Coinvolgere molte persone nel dialogo, spingere – sgomitare, anche – per essere ascoltati. E ascoltare, mettendo in gioco le proprie competenze senza la convinzione di sedere sempre dalla parte del giusto. Tanta è l’ambizione del nostro progetto, che tuttavia pare necessaria per chi a un destino incerto non vuole arrendersi.


Immagine di copertina: Renè Magritte, L’Empire des Lumières (1954).

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