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Student Housing: tra diritti e mercato

In mezzo ai mostri de cemento
St’acqua mo’ riflette er cielo
È la natura che combatte
E ‘sto quartiere è meno nero…

Inizia così il ritornello di un famoso brano degli Assalti Frontali, Il Lago che Combatte: parla di un lago, appunto, ma anche di palazzinari e di capitalismo sfrenato, di diritti negati e riconquistati, di resistenza e di comunità. Iniziamo da qui a parlare della situazione abitativa studentesca nelle nostre città universitarie, perché sono due storie accomunate da simili schieramenti contrapposti, con un simile scontro tra profitto privato e bene della collettività, e che possono potenzialmente condividere simili strategie di lotta. Ma c’è anche un legame molto più diretto tra il Lago Bullicante, il lago che combatte, e la questione della disponibilità (e mancanza) di alloggi accessibili per universitari romani. Per chiarirlo, serve prima un po’ di storia nella storia.

Il lago Bullicante nasce nel quartiere di Tor Pignattara, periferia est di Roma, nel 1992: nei terreni della Ex SNIA Viscosa, stabilimento di seta artificiale abbandonato da quasi 40 anni, uno dei più importanti gruppi immobiliari della capitale inizia la costruzione di un centro commerciale tra via Prenestina e via dell’Acqua Bullicante. Durante lo scavo del parcheggio, però, le ruspe intercettano il fosso della Maranella, un affluente dell’Aniene che scorre in profondità: l’intero scavo si allaga, si forma un lago che si dimostra impervio a ogni idrovora che i costruttori provano a mettergli davanti, intorno a cui piano piano nasce un ecosistema che diventerà la casa di varie specie di uccelli e anfibi, alcune delle quali protette. Nel frattempo, il quartiere si attiva per proteggere il lago e con una serie di lotte riesce a ottenere l’esproprio dell’area da parte del comune e il riconoscimento di Monumento Naturale, diventando così un’area protetta. 

Questo fatto non esaurisce le aspirazioni edificatorie del gruppo immobiliare, che si concentrano invece su altre aree dell’ex fabbrica non sottoposte ad esproprio: nel 2023 propongono infatti di costruire un polo logistico, salvo trovarsi di fronte al no compatto del Comune e di associazioni e comitati locali (che vorrebbero invece una riforestazione e riconversione a parco). A questo punto, il gruppo immobiliare gioca una carta inaspettata, grazie alla quale le nostre due storie si incrociano: propone al Comune la costruzione nell’area di una serie di studentati, corredati da aule universitarie e un centro di ricerca sulla biodiversità urbana, da realizzarsi tramite partenariato pubblico-privato tra gruppo immobiliare, Comune e Università La Sapienza. La mossa è intelligente: non solo mina l’asse Comune-comitati creatosi intorno all’idea dell’esproprio, ma rischia anche di creare spaccature all’interno delle realtà che si battono per un uso pubblico dell’area: d’altronde, chi andrebbe in piazza a protestare contro alloggi per studenti e studentesse universitarie, conoscendo il problema della penuria degli stessi?

L’urbanistica moderna, purtroppo, ci ha abituato a questo tipo di false dicotomie e “guerre tra poveri” indotte: le nostre strade hanno spazio per piste ciclabili o larghi marciapiedi, ma non entrambi; un progetto edilizio può avere una certa quota di alloggi in edilizia convenzionata, ma solo una piccola frazione, per non intaccarne la fattibilità economica. Al contempo, la parte di strada dedicata alle macchine è intoccabile, quasi un’invariante strutturale, e il profitto dei grandi gruppi immobiliari – qualunque sia la sua entità – è considerato sacrosanto. Come vedremo nella seconda parte di questo articolo, questa scarsità di terreni e spazi urbani è però artificiale, frutto di scelte politiche e non di un destino ineluttabile. 

Ho ascoltato la storia dell’Ex SNIA raccontata da alcuni dei suoi protagonisti durante un’assemblea organizzata nell’omonimo Centro Sociale. Dopo, mentre passeggiavo nell’adiacente Parco delle Energie, una domanda mi ronzava in testa: la proposta del gruppo immobiliare era una un passo indietro dovuto all’essersi trovati davanti una resistenza agguerrita e organizzata o c’è qualcosa da guadagnare per un gruppo immobiliare di quelle dimensioni nel mercato dello student housing?

Il ruolo dei piccoli proprietari

Prima di parlare dei grandi attori del mercato immobiliare, dobbiamo però concentrarci su quelli piccoli. I piccoli proprietari privati, infatti, hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nel fornire soluzioni abitative per studenti e studentesse in tutte le maggiori città italiane. Secondo i dati di un ricerca congiunta di CGIL, SUNIA e UDU, solo il 5% degli studenti e delle studentesse fuorisede trova alloggio in residenze pubbliche o convenzionate con enti pubblici per il diritto allo studio (nel resto d’Europa siamo intorno al 17%); il restante 95% cerca nel settore dell’affitto privato, nella maggior parte dei casi in appartamenti condivisi.

In teoria, anche nel settore privato esistono degli strumenti contrattuali per assicurare vantaggi fiscali ai locatori e un canone calmierato agli affittuari. Nei contratti a canone concordato, ad esempio, il prezzo calmierato è definito da un accordo territoriale tra il Comune e le organizzazioni di rappresentanza dei proprietari e degli inquilini (varia, quindi, da Comune a Comune), che fissa un valore minimo e un valore massimo del canone di affitto applicabile. Nel caso particolare degli affitti per studenti e studentesse, l’accordo può fissare ulteriori formule e agevolazioni e, come nel caso del Comune di Milano, definire tariffe indicative anche per le singole stanze. I valori massimi e minimi del canone concordato dovrebbero essere inferiori al prezzo di mercato, anche se è difficile dire in che misura data l’eterogeneità degli accordi e la lentezza con cui vengono aggiornati di fronte a un mercato in continua evoluzione.

Nonostante la loro utilità, questi strumenti hanno uno svantaggio: spesso non vengono utilizzati. Secondo la ricerca di CGIL, SUNIA e UDU, in città come Napoli, Bologna e Milano meno del 15% dei contratti per studenti e studentesse sono stati stipulati a canone concordato. Inoltre, anche in città dove si fa un ricorso massiccio al canone concordato, come Genova (82%) e Roma (71%), sarebbe necessario verificare quanto effettivamente inferiore il prezzo calmierato sia rispetto al prezzo di mercato (in alcune zone di Roma nel 2021 il secondo era addirittura più alto del primo). L’accordo territoriale è ovviamente il delicato strumento che dovrebbe tenere in equilibrio tutto questo castello: se i prezzi sono troppo bassi rappresentano un mancato guadagno per i locatori, non giustificato dagli sgravi fiscali; quando troppo alti non costituiscono un vantaggio per gli inquilini e finiscono per essere un semplice “regalo” ai proprietari sotto forma di riduzione delle imposte. 

Il vero problema di queste soluzioni è che non sottraggono lo student housing alla sfera del libero mercato, che tratta gli alloggi come strumenti finanziari e non come infrastrutture necessarie. Commisurare il prezzo dell’alloggio a una porzione del prezzo di mercato ha, in teoria, una sua logica per i lavoratori urbani: a parità di ruolo, tendenzialmente si guadagna di più nel Nord del paese e nelle grandi città, e gli occupati dovrebbero essere quindi capaci di far fronte a un più alto costo delle locazioni (questa è in realtà una forte semplificazione, data la forbice in continua crescita tra redditi e costo degli affitti). Questa logica, però, non sta in piedi neanche a livello teorico quando si considerano gli studenti e le studentesse: la maggior parte infatti non lavora, ma si sostiene grazie a un reddito familiare generato altrove, spesso dove gli stipendi non sono commisurabili ai prezzi delle città universitarie. Il risultato è che il vero peso dell’affitto che grava sulle spalle di una fuorisede (e della sua famiglia) non dipende solo da dove andrà, ma anche da dove viene. 

Gli affitti brevi

Aver costantemente esposto lo student housing a dinamiche di mercato non lo ha inoltre schermato da uno dei fenomeni trasformativi più dirompenti che le nostre città stanno sperimentando negli ultimi anni: la crescita degli affitti brevi a finalità turistiche su piattaforme online, prima su tutte Airbnb. Affittare il proprio immobile su Airbnb rispetto che affittarlo per periodi lunghi ha vari vantaggi economici e pratici per un locatore: a parità di durata di soggiorno il guadagno è maggiore, vi è totale flessibilità e disponibilità dell’immobile, diminuiscono i rischi di inquilini morosi e danni all’abitazione. Nonostante i recenti tentativi del governo, la tassazione sugli affitti brevi non è riuscita a scoraggiare il loro aumento. Gli effetti sono noti: secondo uno studio del think tank Tortuga, un aumento dell’1% della penetrazione di Airbnb (numero di Airbnb listings per 1000 abitazioni) porta ad aumenti del 5.7% nel prezzo degli affitti, poiché riduce l’offerta per famiglie e per studenti e studentesse. Un’offerta che è sempre stata comunque risicata, data la quota insufficiente di edilizia pubblica e una dimensione del patrimonio immobiliare in affitto inferiore agli standard europei. 

Universitari e universitarie si trovano quindi a competere in un mercato saturo, con un limitato potere contrattuale e con lo “stigma” di essere pessimi inquilini e inquiline (secondo uno studio di UDU quasi il 30% dei proprietari chiede ai genitori di fare da garanti del rapporto contrattuale). Il risultato è che i fuorisede fanno molta fatica a trovare case che si rivelano spesso poco soddisfacenti (lontane dalle sedi universitarie, piccole, in pessime condizioni, scarnamente arredate), in alcuni casi senza un contratto regolare. E quando la trovano, hanno difficoltà a mantenerla: sempre secondo UDU, il 30% è in seria difficoltà economica nel far fronte alle spese collegate all’alloggio.

In sintesi, il ruolo di piccoli proprietari di immobili, che per anni è stato centrale nel fornire alloggi a studenti e studentesse (anche se non sempre a prezzi accessibili), si sta esaurendo, lasciando uno spazio vuoto nel mercato. Uno spazio destinato ad essere riempito dai grandi proprietari di immobili.

La crescita dei grandi studentati e la spinta del PNRR

Il settore delle Purpose Building Student Accommodation, o PBSA, è relativamente nuovo nel nostro paese, abbastanza da aver bisogno di un termine inglese per definirlo: il Regno Unito ha infatti il mercato PBSA più strutturato d’Europa, con una crescita iniziata all’indomani della crisi finanziaria che non accenna a fermarsi. Nonostante le sue dimensioni ancora contenute è un mercato in rapida espansione, che attira investitori nazionali e stranieri: quasi tutte le più grandi compagnie di real estate (Savills, CBRE, JLL, Colliers) delineano in report e articoli l’attrattività di un mercato dove l’offerta attuale non risponde alla domanda di studenti e studentesse italiane e internazionali, e dove esiste una classe media disposta a pagare un premium per alloggi moderni, gestiti da un’azienda competente e dotati di tutti i comfort (il cosiddetto luxury student housing). Milano è prevedibilmente la città con maggior numero di attori e di residenze, ma altre città sono viste come la nuova frontiera, prima fra tutte Roma (la seconda città italiana per numero di studenti e studentesse fuorisede), dove però la macchina burocratica del Campidoglio spaventa gli investitori. I principali player internazionali includono Beyoos, The Social Hub, Collegiate e Aparto, a cui si sommano attori nazionali come Camplus e Campus X. 

Negli ultimi vent’anni, prima dell’entrata in campo di queste vere e proprie aziende dello student housing, la maggior parte dei grandi studentati sono stati costruiti da enti pubblici e soggetti no profit grazie a bandi di finanziamento pubblicati in attuazione della legge 338/2000. Nonostante la norma sia stata (e sia tuttora) fondamentale per normare il sistema di finanziamento pubblico per la costruzione di studentati, aveva però delle criticità strutturali (cofinanziamento massimo al 50%, tempistiche lunghe per la definizione delle graduatorie, pochi fondi messi a disposizione) che ne hanno inficiato il successo negli anni: si stima che solo 16.000 posti letto siano costruiti dall’introduzione della legge ad oggi. Ma aveva anche dei vantaggi: tutti i fondi statali andavano ad enti pubblici (inclusi gli Atenei) e ad enti privati non lucrativi di utilità sociale (tra cui i collegi universitari), che si impegnavano a non cambiare la destinazione d’uso degli immobili a residenze e alloggi universitari per almeno trent’anni.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha rappresentato una consistente iniezione di denaro in questo settore, utilizzando (e modificando) lo strumento della 338/2000 e inventandone di nuovi per trasformare questi fondi in posti letto, e per farlo il più in fretta possibile. Il 26 febbraio scorso, il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) ha lanciato infatti il pacchetto housing, che stanzia 1.2 miliardi di euro per la realizzazione di 60.000 nuovi alloggi entro il 31 giugno 2026, un obiettivo talmente ambizioso da essere ritenuto da molti irrealizzabile. Per raggiungerlo, il Ministero punta su un largo coinvolgimento dei privati.

La strada per arrivare al pacchetto housing dello scorso febbraio è stata però lunga e travagliata. Come ha evidenziato un’inchiesta di UDU, “Diritto al Profitto”, la Componente 1 della Missione 4 del PNRR ha infatti avuto un inizio burrascoso, quasi truffaldino. UDU ha dimostrato come il governo abbia contato oltre 4.200 posti già esistenti ed assegnati come “nuovi”, per poter dimostrare a Bruxelles di aver centrato il primo obiettivo di assegnare 7.500 nuovi posti letto entro la fine del 2022. Per farlo, ha fornito fondi agli Atenei che a loro volta li hanno usati per prendere in locazione posti letto da studentati privati esistenti, ma non censiti nelle rivelazioni USTAT dell’ufficio statistico del MUR: in pratica, erano “nuovi” solo alle banche dati di Largo Ruberti 1. Molto più grave è però che dei 287 milioni stanziati in questa prima fase il 73% sia andato a privati che hanno prodotto posti letto senza garanzie di allocazione a studenti e studentesse in graduatoria DSU (in questa prima fase, l’allocazione della quota posti DSU era volontaria per i privati, e UDU stima si attesti intorno al 20%), e senza un vero calmieramento sui canoni dei restanti letti. UDU conclude il suo report stimando che il contributo statale sia stato pari a circa 30.000 euro per ogni posto letto costruito dal privato, e 34.000 euro per ognuno costruito dal pubblico: ma se si guarda ai soli posti DSU, il pubblico è stato in grado di crearne uno con un contributo di meno di 43.000 euro, mentre il privato ha usato oltre 151.500 euro. 

Sul finire del 2023, il sistema di allocazione dei fondi PNRR per come si stava configurando presentava delle criticità enormi: i fondi (solo 960 milioni contro gli attuali 1.2 miliardi) sarebbero dovuti essere ripartiti per un 31% da bandire seguendo le regole della 338/2000 (aprendo però le porte alle aziende tramite partenariato pubblico-privato), mentre il restante 69% da destinarsi a un non ben definito Fondo Housing Universitario, accessibile solo ai privati. Si allentava il requisito di allocare almeno un 20% dei posti letto a studenti e studentesse in graduatoria DSU, non si faceva riferimento a un prezzo calmierato, e si introduceva la possibilità per gli studentati di destinare gli alloggi ad altri usi (come la ricezione turistica) quando “non necessari all’ospitalità studentesca”.

Fortunatamente, e plausibilmente anche grazie alla pressione di organizzazioni come CGIL, SUNIA e UDU, il nuovo “pacchetto” housing ha affrontato molte di queste criticità. Le misure includono il lancio di un nuovo bando aperto a tutti i soggetti, includendo oltre al finanziamento anche un incentivo sotto forma di credito d’imposta per i proprietari di immobili (che non sempre sono i realizzatori e i gestori delle strutture). Molto più importante, si punta a facilitare la collaborazione tra Demanio e enti pubblici, in particolare le Università, per riconvertire a residenza parte del patrimonio demaniale (per esempio, le caserme inutilizzate e altri immobili sfitti). Questa collaborazione dovrebbe essere facilitata da un Commissario straordinario di nuova nomina, preposto anche alla stesura di procedure semplificate per la realizzazione degli alloggi. Il contributo avrà anche un tetto massimo, nella misura di 20.000 euro a posto letto: questa norma, per quanto utile a distribuire in modo omogeneo i 1.2 miliardi su tutti i 60.000 posti, potrebbe dimostrarsi negativa per il settore pubblico, perché rappresenta un cofinanziamento poco superiore al 50% (nella prima fase del PNRR il cofinanziamento per enti pubblici previsto dalla legge 338/2000 era stato alzato dal 50% al 75%). Finalmente, si reinserisce una quota minima di posti letto DSU da dedicare a studenti e studentesse meritevoli anche se privi e prive di mezzi pari al 30%, e si prevede che i canoni per i restanti posti letto siano al massimo l’85% del prezzo medio di mercato (una cifra che, come abbiamo visto prima, può risultare comunque alta in alcune grandi città). Si sveltiscono anche le procedure di valutazione e di accredito del contributo, ma anche di realizzazione, in quanto i gestori avranno solo 12 mesi per completare l’intervento. 

È tutto oro quel che luccica?

Questo quadro può sembrare positivo, specialmente se si è disposti a sorvolare sul fatto che ci siano voluti quattro anni per arrivare a questa configurazione, durante i quali ingenti risorse sono state distribuite a pioggia sui privati. In realtà, ci sono legittimi dubbi su quanto sia realistico pensare di realizzare 60.000 alloggi nei due anni rimasti prima della fine del PNRR, specialmente adesso che partecipare ai bandi è molto meno conveniente per i privati rispetto agli scorsi anni. Il paese rischia così di perdere l’opportunità del PNRR, che se gestita meglio avrebbe veramente potuto invertire la rotta in materia di accessibilità di posti letto per studenti e studentesse universitarie.

Il lago Bullicante rischia ancora di più. Un aspetto importante del “pacchetto” housing di cui non abbiamo parlato riguarda il cambio di destinazione d’uso. La misura di fine febbraio prevede infatti estreme semplificazioni per il cambio di destinazione di edifici esistenti da trasformare in studentati, che è sempre ammesso anche in deroga a eventuali prescrizioni e limitazioni previste dagli strumenti urbanistici. L’idea è favorire la riconversione di siti brownfield, ossia aree costruite ma non utilizzate nel tessuto urbano, e infatti in alcuni casi si richiede che vengano mantenute sagoma, prospetti e volumetria dello stabile (in altre parole, non sono previsti incrementi nella volumetria). Si sorvola anche sul reperimento di aree di servizi di interesse generale, a condizione di non modificare la destinazione funzionale per i successivi 12 anni.

E se il nostro grande gruppo immobiliare romano, vista l’impossibilità di realizzare poli logistici o residenziali nei volumi dell’ex fabbrica, stesse usando la formula dello studentato per “entrare dal retro”? Che il suo piano non sia di lasciare l’area a studentato per 12 anni, per poi riconvertirlo in appartamenti, magari in un quartiere gentrificato dalla presenza dell’Università?

A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina. Preoccupa inoltre il fatto che, così come sarebbe possibile attuare questa strategia nel caso in esame, lo sarebbe in molte altre situazioni sparse sul territorio nazionale: potremmo quindi trovarci a finanziare grandi gruppi privati, per poi trovarci con un pugno di mosche tra una dozzina d’anni.

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