George Soros è stato eletto persona dell’anno dal Financial Times, mentre il governo ungherese di Viktor Orban è riuscito a chiudere la sua università privata a Budapest. È così che, all’insegna di una polarizzazione estrema, si è chiuso il 2018: mai negli ultimi trent’anni (nella storia post 1989) il mondo occidentale è stato diviso in maniera così netta secondo schieramenti tanto evidenti. Le etichette sono diverse, a seconda dei contesti (economico, politico, culturale), ma i componenti sono stabili: liberali contro populisti, globalisti contro nazionalisti, sovranisti contro cosmopoliti. Su questa divisione sono ormai d’accordo tutti, e pare sempre più evidente che il mondo oggi si riesca a leggere meglio secondo queste categorie che non attraverso gli schemi novecenteschi di destra-sinistra, conservatori-progressisti, repubblicani-socialisti. Bene, allo stato attuale delle cose è giunto il tempo per l’università di decidere da che parte stare, prima che lo facciano altri per lei.
Non è questo lo spazio per discutere su meriti e demeriti di Soros: è diventato miliardario con grossi, geniali azzardi finanziari nei primi anni ‘90 a discapito di sistemi economici traballanti, Italia e Inghilterra su tutti. In questo senso, Soros rappresenta le élite della finanza speculativa, che alcuni identificano come una malattia del nostro tempo, e da ciò deriva parte di astio nei suoi confronti. L’odio restante è frutto della sua storia personale e delle sue idee. Emigrato ungherese, ebreo, si laurea in Filosofia (Bachelor e Master) alla London School of Economics, nel dipartimento fondato pochi anni prima da Karl Popper che fu suo professore. Una volta miliardario, fonda la Open Society Foundation, con cui si occupa di finanziare ONG nel settore degli aiuti umanitari, e la Central European University (CEU), università privata internazionale a Budapest. Il parlamento ungherese, nel 2017, ha varato una legge per cui le università internazionali devono avere una sede nel loro paese di origine (la CEU è fondata e riconosciuta nello stato di New York) per poter operare in Ungheria. Unica università che non rispettava questo requisito: la CEU, che è quindi stata costretta a chiudere i battenti e a trasferirsi a Vienna, che ringrazia.
Ringrazia perché la CEU è la migliore università dell’Est Europa secondo tutti i ranking, inserita costantemente nelle migliori 100 università al mondo nelle aree in cui è specializzata (Politics, Scienze Sociali, Humanities), e nelle migliori 50 università giovani secondo il Times Higher Education (è stata fondata nel 1991 e riconosciuta in Ungheria solo nel 2004). Ma ciò in cui la scuola eccelle, e ciò che più di tutto indispettisce il partito di estrema destra di Orban, è il tasso di internazionalizzazione del corpo studenti: 976 dei suoi 1.245 studenti sono internazionali, provenienti da 100 paesi in 5 continenti. L’università è altamente specializzata, offre solo corsi di livello post-graduate (Master e PhD), ed ha una eccellente produzione accademica. Il fatto che sia fondata da un miliardario aiuta: il finanziamento totale dell’università era di quasi €900 milioni già nel 2010 (per metterlo in prospettiva, la London School of Economics ha un finanziamento di 5 volte inferiore, per un numero di studenti 10 volte superiore).
Nessuna università in Europa era stata costretta a chiudere dal 1943, quando la Germania nazista invase la Norvegia e chiuse l’Università di Oslo. Questo evento è, politicamente parlando, di una gravità assoluta, e deve far riflettere. È lo specchio di tutto ciò per cui è tempo che la nostra generazione inizi a far sentire la propria voce, come non sta riuscendo a fare sin ora. Orban, preso da esempio anche dai populisti nostrani nonché leader della coalizione dei paesi UE euroscettici e sovranisti, chiudendo la migliore università del suo paese mette in chiaro le cose: nel modello sovranista e nazionalista non c’è spazio per l’eccellenza accademica, per l’internazionalizzazione dell’offerta formativa, per la generazione Erasmus. In Italia non si arriva a tanto, ma il ridicolo aumento degli investimenti che l’attuale governo – in linea con i precedenti – ha stanziato per le università pubbliche (circa 60 milioni di euro per quasi 70 università) dimostra che anche qui l’istruzione di eccellenza non è una priorità. Ma il caso della CEU è emblematico in quanto la mancata fiducia nell’università non è nascosta dietro ragioni di carattere economico ed elettorale: è un’università privata che economicamente parlando porta solo grandi benefici a costo zero o quasi. Si chiude una università proprio in quanto università, per ciò che rappresenta. Questo non può e non deve passare nell’indifferenza generale, poi ognuno scelga consapevolmente da che parte stare.
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