Tra socializzazione e diseguaglianza di genere
L’azzurro è un colore maschile, il rosa invece è femminile. Le donne sono più emotive degli uomini. Ai bambini si regalano treni e action figure dei supereroi, alle bambine le bambole come la Barbie (ricordatevi questi giocattoli per dopo). L’uomo è colui che percepisce uno stipendio oppure uno stipendio più alto rispetto alla donna. La donna è la figura più adatta al lavoro di cura. Scienze della formazione è una facoltà femminile.
Vorreste dissociarvi? Da questa serie di luoghi comuni non emerge una verità assoluta che mette tutti d’accordo, neppure io lo sono. Ciò che emerge è una consapevolezza che è stata socialmente condivisa. In sociologia il termine socializzazione indica quel processo per cui una persona entra a far parte di un gruppo interiorizzando e replicando le norme sociali espresse da quel collettivo (R. Ghigi, 2020, p. 19).
Come quando frequentiamo una nuova compagnia o un nuovo ambiente di lavoro gli elementi condivisi da quella collettività ci influenzano e ci suggeriscono i comportamenti che saranno accettati e apprezzati. Non è un processo solamente di carattere micro bensì anche macro e dilatato nel tempo, in periodi. Lo vediamo con la moda in certi archi temporali, per esempio.
Ora vi pongo una domanda: se voi foste responsabili della selezione del personale per un ruolo da educatore o educatrice in un asilo, poniamo privato, e doveste scegliere tra un candidato donna e uno uomo perché scegliereste sempre la donna?
A partire dai Ranking Education Around 2021 ci viene offerto il dato di 191 laureati nelle magistrali di Scienze della Formazione nell’anno 2019. Questi, in termini di genere, sono divisi secondo la percentuale dell’86,4% donne e 13,6% uomini. Si tratta sempre del problema dell’educatore maschio all’asilo? In parte, ora vediamo perché.
Fatta la norma vanno fatti i pedagogisti a Scienze della formazione
Tra le lauree magistrali in Scienze della formazione possiamo contare quelle in Pedagogia (LM-85), Scienze dell’educazione permanente e della formazione continua (LM-57) e Progettazione e gestione dell’intervento educativo nel disagio sociale (LM-50). Questi corsi di laurea hanno dei contenuti eterogenei che vanno dall’ambito socio-assistenziale alla gestione delle risorse umane fino alla progettazione della formazione. A tal proposito con il DDL-2443 del 2018 promosso dalla senatrice Vanna Iori – già da noi intervistata – si è finalmente normata e regolamentata la figura dell’educatore socio-pedagogico e del pedagogista. Quest’ultimo è riconosciuto in base al possesso di una delle lauree magistrali elencate sopra.
Ora, posto che tra i vari percorsi che possono formare un pedagogista vi è il coinvolgimento operativo in ambiti come il disagio sociale, le risorse umane e la progettazione formativa, perché continua ad esserci un divario netto tra maschi e femmine che si laureano in queste classi di laurea?
Fornirò delle possibili spiegazioni partendo dall’origine della tematizzazione del genere e della divisione sessuale dei ruoli; assumendo un carattere più etnografico dato che chi scrive è uno dei pochi uomini che stanno frequentando il corso in Scienze dell’educazione permanente e della formazione continua.
Come si genera la diseguaglianza?
Will, Self e Datan nel 1976 presentano un esperimento sociale che riesce a fotografare l’influenza della socializzazione di genere contrapposta ad un’educazione più a maglie larghe. Ad un gruppo di madri viene proposto di giocare in una stanza prima con un bambino di nome Adam e poi con una bambina di nome Beth. Le donne si sono rese disponibili e hanno partecipato rivolgendo sorrisi e indirizzando Beth verso le bambole presenti nella stanza, ovvero quei giocattoli associati comunemente al genere femminile. Quando hanno giocato con Adam, invece, l’interazione era diversa e i giocattoli verso cui veniva indirizzato il bambino erano i treni, quelli considerati più maschili. Poi arriva la rivelazione: Adam e Beth erano lo stesso bambino. Cala il sipario, pubblico in silenzio (A. Giddens, 2006, p. 170; Cfr. R. Ghigi, 2020).
Pensiamo a questo caso solo come un piccolo tassello di quella che può essere l’influenza data dalla socializzazione di genere. La passività in questione è servita trattandosi del periodo relativo all’infanzia dove l’apprendimento dei bambini è fortemente condizionato dal contesto sociale e dagli attori che lo popolano. La famiglia e la scuola sono tra i primi ambienti che accompagnano alla formulazione di comportamenti e convinzioni fino alla collocazione in determinati ruoli. In altri termini si va a formare quella che è un’aspettativa sociale nei confronti di bambine e bambini.
Una determinata aspettativa la vediamo già in meccanismi psicologici come l’Effetto Pigmalione, ovvero quella profezia che si autorealizza. Una studentessa che viene trattata come una con scarse competenze matematiche, già nella scuola primaria, non sarà incentivata nel risultato delle prove di numeracy. Dall’articolo che abbiamo pubblicato, relativo agli INVALSI, emerge come i ragazzi siano valutati meglio delle ragazze in matematica (Rapporto Prove INVALSI 2019).
Da qui il dato che si può vedere nel proseguimento degli studi con l’iscrizione all’università. Prendendo l’ateneo che nei nostri Ranking 2021 conta il maggior numero di laureati triennali in ingegneria, ovvero il Politecnico di Torino (3113), notiamo che il 74,8% sono uomini contro il 25,2% delle donne. Da una convinzione di non poter competere nei risultati in matematica fino allo scoraggiamento dell’iscrizione alla facoltà di ingegneria. Quella bassa percentuale è il riflesso di un drenaggio delle studentesse verso lauree di carattere umanistico, sociale ed educativo. La classe di laurea in scienze dell’educazione (triennale) conta, a tal proposito, uno schiacciante 93,4% di presenza femminile.
Questo ultimo dato accentua la polarizzazione ma ci riporta anche alla questione relativa alle scienze dell’educazione. Di riflesso sono le donne la fetta più grande del personale educativo professionale considerando il lavoro pedagogico e relativo alla cura della persona fin dall’infanzia una prerogativa femminile. Il dato sulle magistrali, a questo punto, dovrebbe riportare l’equilibrio eppure non è così. Alcune delle carenze che emergono riguardano l’orientamento – aspetto di cui ci occupiamo anche noi di Education Around – anche all’interno dell’università stessa. Il proseguimento degli studi con una laurea magistrale, grazie ad una pianificazione in termini di CFU, può portare ad un percorso alternativo rispetto a corsi che sono le repliche di quelli triennali. In parole povere se ti laurei in scienze dell’educazione in triennale non devi per forza proseguire con scienze dell’educazione in magistrale. Si potrebbe e dovrebbe compiere una valutazione per interessi, competenze e occupabilità.
Maestre e professori per un gender gap senza scelta
Il mondo educativo, procedendo in questo senso, è quello che merita di stare sotto una lente d’ingrandimento ora. Un articolo della nostra Laura Porta evidenziava la polarizzazione rispetto ai ruoli educativi dalle maestre laureate in Scienze della formazione primaria fino ai professori universitari ordinari. L’analisi mostrava come, nei paesi OECD, le donne ricoprissero il 97% dei ruoli educativi nell’infanzia, con il 47% invece per l’università.
La diseguaglianza si inasprisce nei ruoli apicali con un role model mancato. Nel panorama internazionale vediamo l’emergere di figure di leadership femminile, per esempio nella politica, come Kamala Harris, Ursula Von Der Leyen e Christine Lagarde. Mentre in Italia assistiamo ad una segregazione di genere in vari contesti. Un esempio è offerto da quello universitario che osserva un gender gap con il 92,7% di rettori uomini del 2018, il 22% di professoresse ordinarie nonché la differenza retributiva del 78%. Dunque come già segnalato da Domenico Uva il role model deve essere riportato in primo piano istituendo uno scenario dove non sia insolito vedere donne in posizioni di prestigio. E’ necessario agire sul terreno socio-culturale per smuovere le dinamiche della diseguaglianza di genere.
Avevo già proposto lo strumento del gender budgeting rivedendo i bilanci in ottica di genere poiché i soli incentivi, come i congedi di paternità, non basteranno finché la condizione di partenza della donna sarà così svantaggiata (E. Pili, 2018, Ingenere.it). La socializzazione di genere che c’è alla base, con l’influenza della pubblicità (Cfr. R. Ghigi, 2020) e di contesti di educazione formale (istruzione), non-formale (esperienze non istituzionali) e informale (quotidianità), dovrebbe riscoprire il senso dell’orientare secondo un’ottica di libertà (P. Reggio, E. Righetti, 2013, pp. 38-39). Ovvero con le parole del pedagogista Massa:
«Portare via significa anche rapire, strappare, separare, sedurre. Educere assomiglia molto a seducere, anche nel senso di sviare e portare fuori strada. Ma soprattutto, prima che condurre in un luogo appartato, può significare condurre all’aperto. Il gesto educativo è il gesto di chi porta nella radura»
(R. Massa, 1997, cit., p. 26).
Compiere ciò significherebbe non sopprimere alla base un’emotività maschile nonché una dedizione verso il sociale, permetterebbe alle ragazze di sognare posizioni di prestigio in autonomia senza dover pensare ad una scelta familiare obbligata per aspettativa sociale. Insomma un pedagogista che lavora nell’ambito dell’educazione degli adulti potrebbe non essere nell’86.4% donna, ovvero potrebbe non seguire la tendenza quasi totalizzante del percorso triennale in Scienze della formazione. Potrebbe voler dire finalmente educazione di genere e non socializzazione passiva. Intanto in aula, virtuale o meno, continuerò a rispondere al “Buongiorno ragazze” dei docenti con “e ragazzi”.
FONTI
– A. Giddens, Fondamenti di sociologia, il Mulino, Bologna 2006.
– R. Ghigi, Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta, il Mulino, Bologna 2020.
– R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Bari 1997.
– P. Reggio, E. Righetti, L’esperienza valida. Teorie e pratiche per riconoscere e valutare le competenze, Carocci editore, Roma 2013.
http://www.ingenere.it/articoli/che-punto-siamo-politiche-genere-scarpaleggia