Perché parlare di internazionalizzazione?

di Ilaria Salvino Alboni e Serena Daoli

1.Perché parlare di Internazionalizzazione?

Il Covid ha messo in discussione tanti canoni comportamentali e stili di vita. Il concetto stesso di globalizzazione è stato da una parte sublimato da uno spazio senza frontiere costretto a fronteggiare una crisi sanitaria ed economica globale. D’altra parte è stato affossato da un mondo che ha elevato barriere alla mobilità internazionale. 

Studiare, fino a febbraio 2020, significava poter non solo preparare la valigia settimanalmente e/o mensilmente per spostarsi “fuori sede” – nella propria Università lontana da casa – ma anche decidere di concorrere per una borsa di studio che accompagnasse un po’ più lontano. Magari all’estero, magari anche solo in Europa, in un altro ateneo.

In questo momento in cui nulla è scontato, nemmeno partire come studente Erasmus per una nuova avventura accademica lo è. E ci è sembrato doveroso parlare dell’Internazionalizzazione degli studi, in tutte le sue sfumature, in quanto studentesse e donne che hanno toccato con mano quanto di bello e stimolante c’è nello studiare all’estero. In questo articolo ci occuperemo delle ragioni dell’europeizzazione del sistema universitario, del valore dell’esperienza di studio all’estero, dello stato di applicazione del programma Erasmus in Italia. Offriremo un’analisi dei nostri ranking universitari 2021, soffermandoci sui dati connessi a questa situazione eccezionale, fino ad arrivare alle problematiche e sfide dell’internazionalizzazione, per concludere con la nuova frontiera dei doppi diplomi.

2.L’europeizzazione del sistema universitario

Nel 1999 i ministri europei dell’istruzione superiore si riunivano a Bologna con l’obiettivo di costruire uno spazio europeo per l’istruzione superiore, basato su principi condivisi all’interno dell’Unione: la libertà accademica, l’autonomia istituzionale, la libera circolazione di studenti e docenti, la massima occupabilità e l’apprendimento permanente dei laureati, la qualità accademica, la collaborazione esterna e lo sviluppo della dimensione sociale.

 Tramite successive riunioni dei Ministri, il cosiddetto Processo di Bologna è stato approfondito e aggiornato, per poi sfociare nell’accordo intergovernativo di collaborazione sottoscritto tra Budapest e Vienna nel 2010. 

Questo processo di armonizzazione dei sistemi universitari è giunto parzialmente a compimento, raggiungendo alcuni dei suoi principali obiettivi, come l’unificazione dei crediti formativi europei (ECTS), l’adozione di un sistema fondato su due cicli principali – di 1° e 2° livello – e l’utilizzo di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità. Per questo motivo, già la Commissione Europea presieduta da Junker aveva avviato il discorso per un “oltre Bologna”: il Processo di Sorbona si pone, tra gli obiettivi per il 2025, la creazione di una Carta Europea dello Studente, un riconoscimento reciproco automatico dei diplomi di scuola superiore per facilitare l’iscrizione in tutti gli atenei europei, un miglioramento nell’apprendimento delle lingue, l’investimento di almeno il 5% del PIL in istruzione e un incremento della collaborazione nella realizzazione dei programmi scolastici. L’Unione Europea vede nell’istruzione e nella cultura i motori indispensabili per la creazione di posti di lavoro, per incentivare la crescita economica, la giustizia sociale e implementare l’identità europea. 

Secondo la Commissione Europea, l’istruzione e la cultura possono infatti  giocare un ruolo fondamentale nell’affrontare le sfide dell’invecchiamento della forza lavoro, della digitalizzazione, del fabbisogno di nuove competenze, della necessità di promuovere il pensiero critico e l’alfabetizzazione mediatica. Sono inoltre essenziali per rispondere all’esigenza di promuovere un maggiore senso di appartenenza europea.

3.Perché decidere di europeizzare e, in generale, internazionalizzare il proprio percorso di studi?

Se a livello macro, europeizzare e internazionalizzare i sistemi universitari funge da strumento di integrazione e cooperazione al fine di implementare le relazioni e gli scambi tra i paesi, per il singolo studente internazionalizzare il proprio percorso porta con sé una serie di vantaggi relativi sia al proprio sviluppo personale che alla propria occupabilità futura. Esplorare realtà diverse da quelle conosciute porta sempre ad una crescita individuale, ancor più se l’esperienza estera conduce ad inserirsi all’interno di un sistema formativo diverso da quello a cui si è sempre stati abituati. 

Avere, infatti, l’opportunità di seguire corsi universitari in altre lingue e attraverso metodi d’insegnamento nuovi, magari più pratici dell’approccio teorico italiano, accresce enormemente le capacità di adattamento dello studente, oltre ad aumentarne le conoscenze applicabili e a diversificarne il curriculum accademico, fornendogli una visione più completa della materia. In più, si aggiunge la bellezza della scoperta di nuovi luoghi, l’incontro con persone provenienti da tutto il mondo e lo scambio di idee e visioni, che spesso portano a sviluppare reti di conoscenze e di amicizia, che proseguono poi lungo tutto il corso della vita, divenendo magari network di ricerca e lavoro. Da un punto di vista lavorativo, inoltre, è ormai innegabile che quel kit di abilità interculturali e linguistiche sia indispensabile e richiesto in ogni settore e ambito di selezione.

Il valore dell’esperienza all’estero per la costruzione di una personalità ‘competitiva’, nella vita come nel lavoro, è dimostrato da una ricerca condotta da YFUYouth for Understanding Italia – che ha somministrato ad alcuni giovani un test di autovalutazione sui livelli di Intelligenza Emotiva (EQ-i), prima e dopo il periodo di studio all’estero. Dall’analisi di un campione di 272 questionari, è emerso che nel 76% dei casi è aumentato il valore dell’ottimismo e che, al termine del programma, aumenta anche la capacità di affrontare situazioni nuove e complesse. Ne consegue che gli studenti che vivono un’esperienza di scambio culturale sviluppano una visione più positiva e proattiva nei confronti del proprio futuro. Nel 75% degli studenti aumenta la tolleranza allo stress, cioè la capacità di resistere ad eventi avversi e a situazioni di tensione. Nel 70% dei ragazzi c’è un incremento della propria consapevolezza emotiva, cioè del riconoscimento dei propri sentimenti e dell’elaborazione delle proprie emozioni. Inoltre, il 68% accresce la considerazione e la stima di sé, grazie alle relazioni con il prossimo e alle sfide quotidiane.Il 69% degli studenti sviluppa la dote della flessibilità: la capacità di adattare pensieri e comportamenti alle situazioni e alle circostanze in evoluzione.

4.L’Italia e lo studente Erasmus

Holbein il Giovane, Ritratto di Erasmo. Via Wikipedia.

Caliamo ora lo sguardo sullo stato dell’Internazionalizzazione in Italia, limitando il campo visivo al ben noto programma europeo Erasmus.

Innanzitutto, chi è lo studente Erasmus? Lo studente italiano che ha scelto l’Europa come destinazione di studio ha un’età media di 23 anni, che diventa di 25 per un tirocinante. Nel 59% dei casi è una studentessa, valore che sale al 63% quando lo scopo della mobilità è uno stage. La permanenza media di studio è di 6 mesi, che calano a 3 quando si parla di tirocinio.

Dall’inizio del programma (1987) ad oggi, gli studenti universitari italiani complessivamente coinvolti in mobilità per studio o tirocinio sono stati circa 580 mila. Negli ultimi 7 anni ne sono partiti 242 mila, 30.876 solo nell’anno accademico 2018/9. Questo dato ha permesso all’Italia di salire dalla 4° alla 3° posizione (dopo Spagna e Francia) per studenti in partenza per ragioni di studio verso destinazioni europee. Se si guarda all’accoglienza, il nostro Paese è collocato sempre al terzo posto, ancora dopo Spagna e Francia, con oltre 162 mila studenti che negli ultimi 7 anni hanno scelto l’Italia per svolgere il proprio periodo di studio internazionale (21.757 solo nell’anno accademico 2018/9).

Nel 2019, 86 469 sono stati i partecipanti in ben 1 066 progetti italiani di mobilità, con un trend sempre più in uscita che in entrata, per un totale di € 172.17 milioni di euro investiti. Secondo i dati della Commissione, le TOP 3 Università italiane in termini di invio di studenti all’estero sono state: 

1. Alma Mater Studiorim Università di Bologna 

2. Università degli Studi di Padova 

3. Università di Roma La Sapienza

Dal 2015 – anno di inizio della Mobilità Internazionale per Crediti – sono state finanziate inoltre 3.467 mobilità in uscita di studenti e staff che dall’Italia hanno scelto come destinazione per un periodo di studio o tirocinio il resto del mondo, mentre sono state 8.505 le mobilità in entrata dai paesi extraeuropei tra studenti, docenti e personale accademico. 24 sono stati nel 2019 gli Erasmus Mundus joint master degrees che hanno coinvolto il nostro Paese.

5.Un’internazionalizzazione non così spinta in Italia?

Sulla base dei nostri ranking 2021, possiamo articolare alcune riflessioni in merito all’internazionalizzazione.

1. Andare all’estero per ragioni di studio non è scontato. Solo il 12,5% dei circa 290.000 laureati nel 2018 hanno trascorso periodi all’estero in qualche forma. Tutti noi, generazione Erasmus, abbiamo vissuto le difficoltà di compilare form, application, questionari interminabili e sfiancanti, dai mille ostacoli linguistici e burocratici. Mancando l’unificazione reale del sistema universitario europeo – per non parlare di quello mondiale -, le difficoltà di uno studente che tendenzialmente fa affidamento sulle sue sole forze per portare avanti un curriculum internazionale personalizzato  sono notevoli. Occorre trovare un punto di equilibrio tra  uffici didattici di Paesi diversi, che a volte non dialogano, e da professori oberati. 

Da un lato l’esperienza all’estero incentiva lo sviluppo di flessibilità e adattabilità. Dall’altro, però, l’adattabilità e un certo spirito di sopravvivenza sono indispensabili fin dalla selezione all’ingresso

2. Vi è un ulteriore elemento imprescindibile per la selezione all’ingresso nel mondo degli studenti internazionali: la conoscenza della lingua inglese, se non la padronanza della lingua corrente del Paese di destinazione. È innegabile il ritardo italiano nel conferire le competenze e le abilità comunicative in lingua straniera. E con ciò, il sistema scolastico inficia l’internazionalizzazione del sistema universitario. È vero che emergono realtà (fin dall’asilo) sempre più orientate all’acquisizione primordiale dell’alfabetizzazione linguistica, ma non sono ad accesso di massa, e spesso sono legate all’offerta di istruzione privata. 

Sarebbe necessario dunque potenziare la lingua inglese nella scuola pubblica, come passe-partout per il mondo accademico europeo e internazionale. È cresciuta l’offerta di corsi tenuti in lingua straniera (la maggior parte in inglese) all’interno degli atenei italiani, certo. Ma se da un lato la loro esistenza presuppone o rafforza le competenze linguistiche degli universitari, dall’altro i giovani e le famiglie non sono spinti a considerare con favore una costosa (altra barriera all’ingresso non indifferente) esperienza all’estero destinata, oltre che agli studi e alla personalizzazione del curriculum accademico, all’accrescimento delle abilità linguistiche.

3. Per potenziare l’apprendimento dell’inglese nella scuola pubblica, con un aumento del numero di ore ad esso dedicate, attraverso l’organizzazione di laboratori gestiti da insegnanti madrelingua, di periodi di studio in scuole straniere e di scambi interculturali, occorre investire. Nel dicembre del 2019 il Parlamento italiano ha approvato la legge di bilancio per il triennio 2020-2022 destinando al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (il MIUR) circa 60 miliardi e mezzo di euro per il 2020, 113 milioni in più rispetto al 2019. Nell’arco dei successivi 2 anni, tuttavia, sono stati previsti tagli progressivi per un totale di circa 4 miliardi di euro: da 60,54 miliardi si dovrebbe passare a 58,7 nel 2021 e a 56,6 nel 2022.

 A partire dalla crisi del 2008, infatti, quasi tutti gli Stati europei hanno visto calare la percentuale del PIL destinata al settore educativo e l’Italia ha seguito questo trend. Secondo i dati Eurostat più aggiornati riferiti alla spesa governativa generale, nel 2017 il nostro Paese investiva il 3,8% del PIL nell’istruzione dei suoi cittadini, quasi un punto percentuale in meno rispetto alla media europea (4,6%) e allo stesso dato italiano di 8 anni prima. Nel 2009, per esempio, il governo investiva proprio il 4,6%, registrando al 2017 una diminuzione di 0,8 punti percentuali, mentre la media europea che nel 2009 ammontava al 5,2% è diminuita dello 0,6% nello stesso periodo. La Grecia, il paese più gravemente colpito dalla recessione, ha ridotto i finanziamenti all’istruzione di soli 0,2 punti percentuali tra il 2009 e il 2017 (da 4,1 a 3,9%). Fa peggio di noi invece il Portogallo, che ha tagliato nell’arco di otto anni ben l’1,9% del PIL; i portoghesi partivano però da un dato iniziale più alto (6,5% nel 2009) e nel 2017 hanno destinato il 4,6% al sistema educativo, quasi un punto percentuale in più dell’Italia.

4. La spinta a valicare le frontiere è coerente, possiamo dire, con i dati relativi all’investimento di studenti e famiglie nella formazione lontano da casa. Nell’anno accademico 2017/2018, il 27,4% degli iscritti all’università frequentava un corso di laurea in una regione diversa da quella di residenza. Dal 2013/2014, quando la quota di studenti emigrati in un’altra regione era intorno al 24,5%, la crescita è proseguita con un tasso medio annuo del 2,7%. Gli studenti magistrali sono quelli più propensi a cambiare regione per frequentare un corso di laurea: erano il 36% degli iscritti nel 2017/2018. 

Questi dati, comunque, non rendono giustizia rispetto alla forte eterogeneità regionale: a febbraio 2021, mentre scriviamo, occorrerebbe rivalutare il fenomeno del “fuori sede” alla luce dell’impatto della pandemia, al fine di evidenziare probabili e intuibili effetti recessivi sulla tendenza. 

Viene da pensare che nella scelta dello “studiare fuori” entrino in gioco diversi fattori: da un lato, fattori culturali e sociali, per esempio l’attaccamento al proprio nucleo familiare e relazionale; dall’altro, una ridotta propensione degli studenti, magari poco stimolati e informati a riguardo, ad esplorare le differenze tra atenei e le rispettive potenzialità/specificità. Iinfine, un’avversione delle famiglie a investire nella formazione universitaria dei figli lontano da casa – scelta comprensibile considerando in primis una potenziale tendenza all’allungamento delle tempistiche di conseguimento del titolo di laurea causata dalla preparazione e conclusione dell’esperienza di scambio, non trascurando in secundis l’impatto economico di un figlio studente all’estero, e ipotizzando la difficile accettazione di prospettive occupazionali che portino i figli lontano dal luogo di origine.

5. Dai numeri è emerso come le donne siano matricole quantitativamente più presenti all’interno del sistema universitario italiano. Forse, la modesta mobilità studentesca è influenzata da questo rapporto di genere. Il sistema universitario italiano probabilmente soffre di alcuni pregiudizi di genere, pregiudizi che non sono altro che lo specchio della società e delle sue mancate evoluzioni in vista di una totale parità di genere. Tali preconcetti influenzano inevitabilmente le ambizioni e le collocazioni professionali delle laureate. Se uno studente universitario, ambizioso e viaggiatore, viene visto come e spronato ad essere un futuro professionista di successo, lo stesso non è dato per una studentessa, la quale si trova a rispondere a ben note pressioni e aspettative sociali e relazionali.

6. Un ulteriore problema: il Covid

Consulta qui gli ultimi dati della Protezione Civile

Questo si legge ancora sul sito del Miur:

in considerazione delle disposizioni inviate alle istituzioni della formazione superiore dal Ministro dell’Università e della Ricerca e relative all’avvio dell’anno accademico 2020/21, si rileva come a fronte del permanere della situazione di emergenza COVID-19, la mobilità fisica degli studenti internazionali verso l’Italia potrà essere sostituita se necessario, almeno per tutto il 2020, con attività didattiche a distanza.

Il rapporto elaborato dall’Erasmus Student Network si basa su un’indagine condotta dal 19 al 30 marzo 2020 e riguarda l’influenza dell’emergenza Covid-19 sulle esperienze di studio all’estero in Europa. Lo studio raccoglie 21.930 risposte, da parte di studenti internazionali provenienti da tutta Europa. Il 62,3 % degli studenti intervistati (i 2/3) ha dichiarato di aver proseguito la propria esperienza, il 2,4 % ha esplicitamente menzionato la prosecuzione della propria mobilità tramite le lezioni online. Per il 25 % (1/4) degli studenti lo scambio è stato cancellato, mentre un 5 %, all’epoca, non era certo circa il destino della propria borsa di studio. Il 41,8% degli intervistati ha deciso di rimanere, nonostante la didattica a distanza, nel Paese di destinazione, un 40 %, invece, ha scelto di rientrare e un 5,2 % non aveva ancora preso una decisione all’epoca dell’indagine. Il 3,6 % ha dichiarato di non avere la possibilità materiale di rientrare a casa a causa delle restrizioni. Comunque, la proporzione di studenti che è rimasta nella località di scambio è lentamente diminuita rispetto al momento in cui l’indagine è stata aperta. Il 7,8 % dei vincitori della borsa Erasmus non ha nemmeno cominciato la propria esperienza. Un 9 % ha dichiarato che le lezioni erano state cancellate o posticipate, senza alcuna alternativa online. Degli studenti che hanno avuto la possibilità di formarsi tramite la didattica a distanza, il 51 % ha visto la didattica frontale completamente sostituita da quella a distanza, il 34 % solo parzialmente. Tanti problemi tecnici sono stati rilevati: ad esempio, l’insufficiente preparazione dei professori nella sostituzione della didattica frontale e l’organizzazione, dal punto di vista di piano di studi/esami, del rientro presso l’università madre. Inoltre, il 7 % degli studenti non ha ricevuto il finanziamento europeo per il limitato periodo trascorso all’estero, il 24 % ne ha ricevuto una parte. Tanti non sapevano ancora nulla circa la fruizione o meno della loro borsa di studio.

Secondo un report di Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), tuttavia, nell’anno 2020 le richieste per programmi Erasmus + di mobilità transnazionale sono aumentate del 5% rispetto al 2019. Agli studenti italiani non è passata la voglia di fare un’esperienza fuori dal Bel Paese, nonostante per i ragazzi che ora studiano all’estero sia certamente un periodo complesso. L’Erasmus ai tempi del Covid, con le lezioni da frequentare online, i compagni da incontrare nelle aule virtuali e le città da scoprire con mascherine e distanziamento sociale, certo non è e non sarà lo stesso che abbiamo sperimentato noi, generazione Erasmus “pre-Covid”. Banditi i pomeriggi in biblioteca, la vita accademica, le attività culturali, le iniziative aggregative e interculturali, le feste nei locali notturni, i weekend fuori porta dedicati alla scoperta del Paese, resta da chiedersi cosa sia rimasto e quale sia il plusvalore di questa esperienza.

7.Doppie lauree e titoli congiunti

Vorremmo ora porre l’attenzione su un altro modo di fare esperienza all’estero.

Una strada che sempre più studenti universitari scelgono di percorrere è quella della doppia laurea: essa consente il conseguimento di due titoli universitari attraverso l’iscrizione ad un unico corso di studio. Non essendo ancora possibile nel nostro ordinamento conseguire contemporaneamente due titoli in due diversi atenei italiani (anche se a dicembre 2020 la Commissione Cultura della Camera ha approvato la proposta di legge per abolire questo divieto), ad ora, l’unica possibilità per gli studenti che desiderino conseguire due diverse lauree è quella dei programmi realizzati in collaborazione con istituti esteri. 

In Italia sono 44 gli atenei che garantiscono il rilascio del Double degree e i programmi tra cui scegliere sono più di 60. Il percorso per il conseguimento del titolo dipende dagli accordi bilaterali siglati tra le due istituzioni, mancando un carattere uniforme di questi ‘doppi titoli’: alcune università prevedono la semplice frequenza di uno o più semestri all’estero, al fine di seguire i corsi indicati nell’accordo e di conseguire la laurea; altre, invece, richiedono la stesura di una tesi nella sede estera, o la frequenza di lezioni doppie già durante il periodo di studio in Italia. Inoltre, sulla base del tipo di accordo stabilito tra gli istituti, è possibile conseguire o titoli multipli oppure un titolo congiunto, validato da tutte le istituzioni che hanno promosso il percorso di studi.

Tra le università con il più alto numero di joint degree troviamo l’Università di Bologna, seguita da La Sapienza, principalmente per le doppie lauree umanistiche, Trento, prima a stabilire accordi internazionali nel 1997 e Cà Foscari.

I vantaggi di questo percorso si incentrano soprattutto sulla maggiore diversificazione del piano didattico e sulla possibilità fornita allo studente di sperimentare due o più sistemi universitari, potenziando le capacità di adattamento e comparazione, oltre al consolidamento linguistico che deriva dall’esperienza estera. Da un punto di vista culturale, le doppie lauree realizzano un processo di integrazione tra istituti e studenti, ancora maggiore rispetto al programma Erasmus, permettendo ad uno studente di identificarsi con due diverse università e, di conseguenza, con diversi background accademici e culturali. A ciò è necessario aggiungere che il conseguimento di un doppio titolo da accesso a dottorati, master e concorsi anche all’estero, senza necessità di convalidare la propria laurea italiana.

Quanto ai costi, la spesa maggiore riguarda il soggiorno estero: solitamente gli studenti pagano una sola retta universitaria e fruiscono di agevolazioni e borse di studio.

Tutto molto bello, se non fosse che i posti per l’accesso a questi corsi di studio sono limitati.

8.Fine o inizio?

Ci sarebbero ancora molte cose da dire sul tema dell’internazionalizzazione degli studi ma vi lasciamo con una riflessione un po’ ambiziosa, che sa di provocazione.

L’europeizzazione e l’internazionalizzazione del sistema universitario rappresentano un sogno, non solo individuale, di uno studente che magari per la prima volta si allontana da casa per crescere dal punto di vista universitario e personale, ma anche e soprattutto accademico, di eguaglianza, di accesso e di diffusione di conoscenze, possibilità professionali, abilità linguistiche e identità cosmopolita.

La mobilità internazionale ha tanti aspetti positivi, li abbiamo visti, ma anche tante incognite e difficoltà di realizzazione concreta, le quali dipendono non solo dalle Università, e dalle loro capacità organizzative e logistiche, ma anche dalle predisposizioni culturali e sociali, dagli Stati che investono in Università e ricerca, da un mondo aperto e integrato, che non pone barriere.

Il Covid è stato un banco di prova per la sostenibilità dello scambio interculturale.

Non lasciamo cadere una doverosa riflessione: la possibilità di applicazione della didattica a distanza anche nell’ambito dell’Internazionalizzazione degli studi. Se la didattica si può fare online, allora può essere svolta anche tra istituti diversi, e tra Paesi diversi, concedendo a tutti, indipendentemente dalle proprie possibilità materiali, l’opportunità di accedere a conoscenze accademiche estere. 

Questo permetterebbe di coinvolgere un maggior numero di persone nei programmi internazionali, nell’attesa però che un’altra, più pregnante, riflessione venga affrontata: il sistema universitario, a partire da quello europeo, deve urgentemente uniformarsi, in toto, al fine di velocizzare l’interconnessione studentesca. Per fare ciò, i doppi titoli sono un potente strumento da estendere, valorizzare e rendere meno elitario.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.