L’impianto museale

L’alfabetizzazione artistica

Ospite Rubrica: Laura Porta

I Musei Vaticani e la tradizione delle scienze museali

Sabato mattina, ore 8.30: gli ingressi contingentati e la poca affluenza bastano per convincermi a tornare ai Musei Vaticani, quel luogo quasi magico di cui avevo solo lontani ricordi. Ovviamente, una meraviglia. Lo Stato pontificio ha accumulato nei secoli una collezione da brividi, multiforme, vasta, sontuosa, immersiva: opere d’arte di ogni genere e di ogni epoca, da godere nella cornice di un complesso museale che da solo varrebbe la visita.

Non rientra nel fine di questa rubrica né di questo articolo in particolare enumerare le meravigliose opere d’arte che sono racchiuse in quegli spazi. Credo  nessuno dubiti che valga la pena entrare in Città del Vaticano per passare ore immersi nei suoi tesori.

No, questa rubrica ha invece lo scopo di presentare al lettore quello che della cultura e della sua fruizione c’è di educativo; dunque, consentitemi di concentrarmi sull’esperienza educativa che la visita mi ha lasciato. Non è un tema semplice: ogni persona ha una esperienza diversa con l’arte e, attraverso essa, esperisce in maniera estremamente particolare ciò che è universalmente riconosciuto come bello.

Per questo motivo, di fronte al non-finito michelangiolesco ognuno rimane colpito a modo suo: chi si concentra sulle forme, che sono costrette in spazi fittiziamente angusti, chi sui colori, chi sulle espressioni e chi sul tema generale dell’opera, ancora capace di essere moderna ed estremamente comunicativa. Lo stesso si può dire del Laocoonte e degli affreschi di Raffaello, o dei meravigliosi dipinti di Tiziano e Caravaggio che sono conservati tra quelle preziose mura.

Visitatori da tutto il mondo vengono per ammirare questo museo estremamente semplice nella sua impostazione. Il percorso contiene infatti più esposizioni, che possono essere visitate senza un particolare filo logico (se non quello temporale) e che si presentano nella forma più intellegibile di esposizione: una collezione messa in mostra. Si cammina lungo un itinerario prestabilito e guidato, attraversando stanze con le opere d’arte disposte lungo le pareti e accompagnate da didascalie esplicative. Impariamo ciò che non sappiamo e,  se non vogliamo approfondire qualcosa, possiamo passare all’opera successiva. Questo tipo di impianto museale è classico, didascalico e volutamente poco interattivo. A prevalere in questo tipo di assetto i modelli sono due, forse tre. Innanzitutto, il museo può essere pensato come ad una collezione di cimeli, perfettamente adatta alla cornice monumentale del palazzo che li contiene. Si tratta di una collezione di preziosi artefatti di cui uno Stato può vantare il possesso, amplificando così il proprio prestigio.

Musei Vaticani

Molto simile a questo aspetto ‘magnifico’ dell’arte è quello del cosiddetto cabinet de curiosités, ovvero della collezione intesa come insieme di oggetti sorprendenti. In questo caso gli elementi della collezione catturano per la loro forma insolita, l’origine remota o la fattura sconosciuta all’attenzione di chi li osserva. La collezione intesa in questi termini è simile alla raccolta di tesori, che appartengano ad un singolo individuo o ad uno Stato, piuttosto che una proposta rivolta al pubblico.

Il terzo modo di intendere il museo al quale può essere ricondotta l’esperienza ai Musei Vaticani è quello del salon, diffuso nell’ambito delle esposizioni d’arte pittorica del XVIII secolo. Il termine deriva per antonomasia dal Salon de peinture et de sculpture, istituzione del bel mondo parigino dell’Ottocento. In una simile esposizione, le opere vengono presentate al pubblico nella forma da cui poi avrà origine il museo moderno. Tuttavia rimane ben chiaro che il salon sia nato come collezione appartenente ad una certa accademia; si tratta insomma di una raccolta che permette al pubblico di ammirare le creazioni di una singola scuola, di comprendere i canoni che essa assume come propri e di fruirne liberamente, pur senza esserne necessariamente interpellata. Il rapporto fra il pubblico e l’opera rimane, anche in questo caso, una responsabilità del primo, che sceglie di visitare la collezione e quindi ha quasi il dovere di adattarsi al suo linguaggio. Nella creazione dell’opera d’arte il fruitore non ha posto: è spettatore, valutatore, ammiratore, mai creatore o modificatore. 

Questo tipo di museo presenta l’arte conservando una concezione simile, in cui artista e pubblico non interagiscono. Lo sforzo minimo richiesto al visitatore è poca cosa: basta che entri e si ponga davanti alle opere. All’arte il compito di parlare, alla mostra il compito di spiegare. Allo spettatore rimane il ruolo, a volte faticoso, di mettersi in ascolto attento e di imparare. L’esperienza educativa qui è molto semplice da riconoscere: attraverso i vari linguaggi e le varie fratture, abbiamo gli strumenti per comprendere l’opera, l’intento comunicativo e l’aspirazione dell’artista. 

A scuola, i bambini ricevono gli strumenti e le parole giuste per comprendere il messaggio di Raffaello, di Michelangelo, di Dalì. Capiamo questi artisti perché conosciamo l’alfabeto con cui scrivono, per così dire, i loro schemi e le loro intuizioni. Sappiamo apprezzare la bellezza delle loro opere perché abbiamo le lenti ed il lessico giusto per poterlo fare. Sull’Argan sono spiegati minuziosamente i concetti di prospettiva alla Piero della Francesca, e ogni professoressa di storia dell’arte passa ore e ore a spiegare perché Platone ed Aristotele si ritrovano a discorrere mano nella mano, contornati dai più grandi studiosi conosciuti (e sconosciuti, perché in effetti chissà se quella è davvero Ipazia) mentre uno indica la terra e l’altro il cielo. 

L’esposizione della collezione dei Musei Vaticani pone l’obbligo di interrogarsi  sull’educazione all’Arte. In un impianto del genere, il curatore ci accompagna, ci prende per mano e ci mostra, in definitiva, un delicato tesoro che deve essere contemplato con riguardo. Si tratta di una collezione nel senso più elevato del termine, una rassegna di capolavori dal pregio elevatissimo.

La cornice museale che li contiene sembra implicare che, se vogliamo comprendere le opere di cui siamo spettatori, sta a noi il dovere di sviluppare il lessico adatto a comprenderne il contenuto. Purtroppo però l’alto livello culturale richiesto può essere un ostacolo per molti visitatori. Si tratta di opere che non sarebbero così difficili da accostare se conoscessimo il linguaggio in cui parlano, che però non ci viene insegnato a scuola e raramente altrove. 

In che modo dunque il museo può fare da ponte tra opera e spettatore? Il museo è una cornice per capolavori magnifici, ma può anche avere un ruolo diverso quando si tratta di comprendere il linguaggio dell’arte?

Il MACRO, l’innovazione al museo

La mattina si è trasformata in un caldo pomeriggio romano. “Io vi consiglierei di andare a vedere il MACRO, è un museo ganzissimo poco fuori dal Centro di Roma”. Queste le parole di un giovane artista, illustratore e grafico: mi fido e decido di sfruttare la stessa giornata per fare una full immersion nell’arte. 

Il Museo di Arte Contemporanea di Roma è un centro espositivo dedicato all’arte moderna e contemporanea, prevalentemente italiana, dal 1960 ad oggi. La sede, ideata dall’architetto Odile Decq, si trova nella zona di riqualificazione dell’ex Fabbrica Peroni.

L’ambiente che accoglie il visitatore è fatto di aree fluide e flessibili. A differenza dei rigidi percorsi guidati e obbligati dei Musei Vaticani, che hanno il fascino delle stanze di rappresentanza di un’altra epoca, al MACRO lo spazio stesso invita ad una scoperta più flessibile e giocosa. Qui, un enorme auditorium la fa da padrone all’ingresso. Il museo comprende poi sale espositive, spazi-eventi, sale didattiche e una sala di lettura, su una superficie di circa 10.000 mq (contro i 42.000 dei Musei Vaticani). 

Interno del MACRO, Roma. Immagine presa da www.zero.eu/roma

Il Museo è in realtà sviluppato su tre sedi, di cui una all’ex Mattatoio al Testaccio (consiglio vivamente una visita al quartiere in sé e agli spazi del Mattatoio in generale): la collezione permanente viene esposta a rotazione, mentre ora vi è una importante mostra temporanea. Il Museo nel programma del direttore artistico Luca Lo Pinto è chiamato Museo per l’Immaginazione Preventiva; l’esposizione dinamica fa parte di un unico progetto che prenderà forme diverse in modo organico fino alla fine del 2022.  

Esso quindi è per vocazione mutevole, incentrato più su l’avvicendarsi dinamico delle esposizioni che sulla solida certezza di una collezione permanente. Un museo che muta, che si trasforma nel tempo, che un giorno ti mostra un lato e quello dopo un altro completamente diverso. 

Da Museo a Progetto Museale mutevole: il titolo è ispirato all’ Ufficio per la Immaginazione Preventiva, istituito negli anni Settanta con l’obiettivo di presentare e produrre un’arte capace di rivoluzionare la società. Secondo quanto indicato dal direttore artistico, non bisogna certo ignorare le origini e lo sviluppo dell’istituzione museale, ma è necessario tentare di svincolarsi da modelli che risultano anacronistici rispetto alla complessità e porosità del linguaggio contemporaneo.

Si capisce che oggi il concetto di museo e la sua identità sono messi in continua discussione dai mutamenti sociali ed economici, nonché dai linguaggi dell’arte stessa. Al MACRO, l’immaginazione fa da motore per la sperimentazione di percorsi museali diversi. Ciascun tentativo di mettersi in comunicazione con il pubblico, ora interlocutore e non più silenzioso spettatore, può riuscire o fallire.

L’approccio è opposto rispetto ai Vaticani: il museo diventa non un contenitore ma un vero e proprio palcoscenico. Lo stage si trasforma, cambia volto repentinamente e ogni suo movimento dinamico coinvolge lo spettatore: su di esso, le varie mostre, esposizioni, eventi e progetti si susseguono, proprio come se ci fosse una programmazione teatrale dietro. Lo scopo è quello di essere più accessibile, senza scadere nel puro intrattenimento, comprensibile a tutti ma non passivamente didascalico, elastico ma sensato, con al centro gli artisti e i visitatori allo stesso tempo.

Il museo diviene un laboratorio che produce immaginari e ambienti diversi, rifuggendo la staticità di uno spazio espositivo. Nei tre anni il museo muterà faccia, esposizioni e volti quasi improvvisamente, accoglierà mostre diverse e puzzle differenti. Al di là della mostra che era in programma quel giorno, l’esperienza museale mi ha suscitato una riflessione che desidero proporre. Il linguaggio artistico è differente e ha perciò bisogno di modi differenti di essere presentato e dialogare con il visitatore. Nell’arte contemporanea prevale la ricerca di un continuo dialogo con il fruitore che deve diventare protagonista, o quantomeno partecipare attivamente alla costruzione dell’opera. 

Il contenuto della singola opera d’arte non viene inteso in modo statico, ma si parte dal presupposto che questa possa avere più significati, trasmettendo così messaggi diversi a spettatori diversi. Per questo il contesto in cui viene posta l’opera viene pensato dinamicamente, in modo che essa non diventi un punto di riferimento fisso, ma uno spettacolo cangiante in trasformazione continua. Non è un linguaggio che facilmente si presta ad essere capito senza uno sforzo di immedesimazione nell’opera. Questa caratteristica dovrebbe rendere l’arte più fruibile, personale, aperta a sperimentazione, ma non sempre è così. 

Perché tutto quello che dovrebbe essere più facile non lo è per nulla? Perché non riusciamo, nella maggior parte dei casi, ad avvicinarci all’arte contemporanea, a lasciarci emozionare da uno spazio espositivo del genere? Perché forse ci troviamo in difficoltà, a disagio, nel non comprendere. Non ci piace essere invitati a prendere parte di un processo artistico e sentirci inadeguati nel farlo. Usciamo dal Museo con una sensazione di stupidità, di non comprensione che, senza un’attenta analisi, portano i più ad esclamare “l’arte contemporanea non mi piace, non ha senso, tutti sarebbero capaci di fare la stessa cosa!” Anche se l’arte non deve essere per vocazione accessibile a tutti, essa non dovrebbe allontanare o alienare il proprio pubblico. 

Se nelle giuste condizioni e dotati dei giusti strumenti, ognuno di noi potrebbe godere, a proprio modo, dell’esperienza artistica. L’arte ci può e ci deve mettere a disagio, come ci mettono a disagio i dipinti inquietanti di Michelangelo o di Picasso, ma non perchè elitaria e incomprensibile: ci deve mettere a disagio perché il messaggio è chiaramente quello di denuncia, perché ci pone delle domande scomode, perché passa un messaggio importante. Ci può stupire, ci può ammaliare, ci può disperare, ma perché in un qualche modo giunge fino a noi. 

Con un muro di cemento tra noi e lei, come possiamo essere educati, ammaliati, e magari imparare ancora di più? Forse abbiamo bisogno di strumenti non tanto per comprendere, ma per decifrare questo tipo di arte. L’incontro con l’arte a volte diventa ostico e quasi elitario.

Beauty is truth, truth beauty — that is all Ye know on Earth, and all ye need to know.

Se, come dice Keats, l’arte è bellezza e la bellezza è verità – e se questo è tutto ciò che dobbiamo sapere -, allora il linguaggio artistico può è deve essere ripensato, come se a comprenderlo dovesse esserci un bambino che vuole imparare.

La curiosità non si deve trasformare in paura, la fiducia del pubblico va mantenuta viva. Questo è un compito difficile di cui fasi carico quando si progetta un’esposizione, a prescindere dalla cornice museale prescelta, giacché ciascuna presenta i propri limiti. Nel caso di una impostazione più classica, le collezioni stabili hanno il fascino del virtuosismo artistico, ma spesso mancano di dinamicità; i musei più contemporanei, d’altro canto, talvolta fanno scomparire il contenuto delle opere nel loro continuo vortice di trasformazioni. Di linguaggio in linguaggio, spiegare l’arte non è mai semplice e il compito del curatore è forse tanto complesso quanto quello dell’artista. Eppure, se non ci si interroga sul modo in cui l’arte viene presentata, si rischia di condannarla ad essere incomprensibile, anche davanti al pubblico più interessato.

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