DO NOT TOUCH

Primo sguardo

Rubrica: Virtual R.EA.lity

Nei musei mi affascina camminare tra le opere d’arte, lasciarmi guidare dall’istinto e dalla curiosità, cercare di individuare quale sia il percorso che è stato immaginato per me dal curatore, guardare le altre persone che si incuriosiscono e si lasciano suggestionare. Penso che sia una delle esperienze più vere di apprendimento, di formazione, di ricerca di un mezzo comune e al contempo soggettivo di lettura della realtà. 

Questa volta, entrare in un Museo non è mai stato così strano: mi trovo di fronte al tasto Enter Exhibition su una pagina web. 

Seduta di fronte al PC, entro. O meglio, vengo reindirizzata. Qui al MoCDA non c’è bisogno di passare dalla biglietteria, ma da un tasto: JUMP IN! dentro Decentreland, che è il luogo virtuale dove si trova l’esibizione che ho scelto.

Passo uno: la creazione di un avatar per entrare nel museo. Eh, certo. Non sono molto brava nel creare un alter ego virtuale, e non riesco a fare a meno di cercare di replicare la mia immagine (con scarso successo). Non sarò io ad entrare al museo, ma lo farà il mio avatar per me. Forse creare il proprio doppio virtuale è un’operazione ormai scontata per gli appassionati di gaming; per me, invece, scegliere che aspetto debba avere su Decentreland non è affatto scontato. Il risultato assomiglia di più ad un personaggio dei Sims che a me stessa. In alternativa è possibile scegliere un aspetto generato automaticamente dal sistema, un po’ come se si andasse al museo in maschera. Due minuti di tempo: il mio mondo virtuale si sta caricando e io sto finalmente per essere teletrasportata.

Il mio avatar dentro Decentreland all’inizio della mostra

Passo due: qualche istruzione sui tasti e le modalità di movimento. Posso vivere l’esperienza guardandomi in terza persona o in prima persona. Posso adottare il punto di vista del mio avatar tramite il mio schermo, cioè vedere tramite i suoi occhi, oppure seguirlo in terza persona secondo una modalità che ricorda molto quella dei videogiochi. Le provo entrambe, e nonostante sia meno realistica scelgo per comodità la terza persona, che mi permette di avere una visuale migliore. Ha inizio la mia esplorazione di questo museo virtuale, dove mi muovo utilizzando i comandi della tastiera, e che a tratti mi ricorda un labirinto per il modo in cui sono organizzati gli spazi.

DO NOT TOUCH è una esibizione di tre artisti contemporanei che studiano il tatto e le emozioni che scatena. È curioso come una mostra sul senso più fisico e materiale di tutti sia completamente virtuale. A mio avviso, questo non rende meno efficace o meno bella l’esposizione: le opere d’arte digitale sono molto accessibili, le sculture si possono ruotare in 3D, i dipinti si possono vedere in altissima definizione e ingrandire a piacimento. Ho trovato molto interessante la serie di opere “Tangible Data”: il fatto che questi dipinti prendano vita davanti al mio avatar, che si contraggano, si sciolgano al tocco di una mano anch’essa virtuale mi ipnotizza. Vorrei quasi essere parte dell’opera, e forse in effetti lo sono, perché sono tanto digitale quanto la mano che sta dando nuova forma alla materia. Questo mi fa pensare che una mostra virtuale non deve necessariamente parlare del digitale, ma può anche invitarci a riflettere sull’analogico, come fanno gli schermi fracassati di tangible data e le grandi sculture tridimensionali che evocano la forma e la dinamicità del corpo umano.

Locandina della Mostra – https://www.mocda.org/do-not-touch

Rifletto sul nome dell’esibizione: DO NOT TOUCH è qui un imperativo totalmente inutile. Né io né l’opera d’arte siamo reali, esistenti, analogici. Il nostro contatto è in nessun caso possibile materialmente, e mi lascia la stessa voglia che provo quando desidero sentire il marmo di Apollo e Dafne, toccare il rilievo delle pennellate di Monet o sentire se la tela squarciata da Fontana è davvero così tagliente come sembra. Se nel reame del reale in effetti potrei prendermi la libertà di fare queste cose, qui la dimensione non mi permette di avvicinarmi più del dovuto, mi toglie un grado di libertà (almeno potenziale) e di prospettiva. Certo, ne aggiunge degli altri: il mio avatar è libero di muoversi nelle sale digitali del museo in un modo che non sarebbe mai possibile in uno spazio reale, può correre da un posto all’altro, tornare più e più volte davanti alla stessa opera, ignorare completamente il percorso ideato dal curatore o seguirlo fedelmente. Eppure, accanto alla potenziata libertà dello spettatore, questo tipo di esposizione mette anche in luce l’aspetto costrittivo della cornice museale. A vietare il contatto con l’opera non ci sono solo le norme di comportamento tipiche del museo, ma c’è anche e soprattutto la vera e propria cornice del mio schermo che si frappone come una muraglia insuperabile tra me e le opere.

Quindi, cosa si prova a visitare un museo virtuale? 

L’illuminazione della galleria è ottima, ma potrebbe anche essere piena notte perché le opere esibite sono illuminate da pixel. L’ambiente è spoglio, privo di distrazioni, ed il percorso abbastanza semplice e lineare (per fortuna aggiungo, perché ho qualche difficoltà nel movimento e il rischio di finire contro un muro e non riuscire a più a girarmi è reale). L’esterno sembra un videogame. 

La mia visita è molto breve, un po’ per la mancanza di distrazioni e ostacoli alla visita, un po’ perché le opere esposte sono in effetti poche, un po’ perché mi sento sola, e vorrei potermi confrontare con altri, anche solo tramite uno sguardo. In questa versione dello spazio virtuale si accede da soli alle sale, pertanto la nostra vista non è mai sbarrata da un altro visitatore, e non ci si deve attardare o affrettare per evitare le visite di gruppo in sosta semi-permanente davanti alle opere principali. L’assenza di altre persone modifica il modo in cui ci si mette in relazione con l’opera d’arte. La presenza dell’artista, che data la virtualità dell’opera potrebbe essere ridotta al minimo, è invece potenziata in questa esperienza di visita individuale. Nell’assenza di altri visitatori sono solo gli artisti ad accompagnarci, e ci troviamo allo stesso tempo più vicini e più lontani da loro in questo spazio in cui sia artista che spettatore sono assenti, eppure presenziano l’uno tramite la propria opera, l’altro attraverso il proprio avatar. Nota positiva: per la prima volta posso non sentirmi in colpa nel decidere cosa mi piace e cosa non mi piace, su cosa mi interessa soffermarmi e cosa invece voglio tralasciare.


Le mie considerazioni sono puramente personali, e sarebbe davvero interessante poterle confrontare con altre, come vi invitiamo a fare. Purtroppo non è possibile conversare con gli altri spettatori durante la propria visita, poiché l’unico rapporto possibile all’interno di questo spazio è quello spettatore-immagine. Dunque è solo in questa parentesi narrativa, o nel dialogo con un’altra persona in seguito alla visita, che si può costruire una comprensione collettiva dell’esperienza fatta.

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