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Capaci e meritevoli: tutta l’università dovrebbe essere a numero chiuso

Università numero chiuso

Come disse Ernesto Rossi – redattore insieme ad Altiero Spinelli del Manifesto di Ventotene – «se un fascista dice che piove, e piove, ha ragione il fascista». Voglio preventivamente sgomberare il campo da un possibile malinteso: non cito questa affermazione perché credo che Salvini sia un fascista. La cito perché quel che mi pare di leggere nelle parole di Rossi è che per quanto si possa essere in disaccordo con una persona, negare anche le affermazioni ovvie e fattuali è sbagliato e controproducente. In altri termini, attaccare un politico sempre e comunque perché non ne condividiamo l’appartenenza ideologica o partitica è un errore madornale. In un precedente articolo, non ci siamo risparmiati di evidenziare come la linea del Ministro dell’Interno sul tema delle armi ci pare sconsiderata e non giustificabile. È con altrettanta certezza che oggi ci sentiamo di difendere saldamente un concetto sollevato dallo stesso ministro nelle scorse settimane: ovvero, che andrebbe inserito il numero chiuso nelle facoltà umanistiche.

Una grossa premessa è ora d’obbligo: è difendibile la prima affermazione – «Metterei il numero chiuso nelle facoltà umanistiche» – e null’altro. Le ragioni che Salvini adduce a giustificare tale intervento sono profondamente errate, così come sarebbe un errore madornale togliere il test a medicina. Eppure, il ministro ha ragione: andrebbe inserito il numero chiuso, e non solo alle facoltà umanistiche, ma a tutte le facoltà delle università italiane. Piccolo contrattempo: il governo ha fatto l’esatto opposto. O almeno dice di averlo fatto. Si legge infatti nel comunicato ufficiale al termine del Consiglio dei Ministri n.23 del 15 ottobre:

22. Abolizione del numero chiuso nelle Facoltà di Medicina – Si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi.

Misura adottata all’insaputa dei ministeri competenti (Salute e MIUR), e subito smentita da una nota stampa secondo la quale si tratterebbe solo di un obiettivo politico di medio termine – il che, come ha notato giustamente Massimo Gramellini, stona e non poco con l’uso dell’indicativo presente “si abolisce”. Ad ogni modo, pare che al netto degli slogan il governo abbia le idee chiare: il numero chiuso va abolito. Questo sarebbe, dati alla mano, un errore gravissimo. La direzione da intraprendere è opposta. Pare un’idea dissennata, quella di chiudere il numero in tutte le università, considerando che siamo il penultimo paese europeo per percentuale di cittadini laureati? Dati, logica e costituzione alla mano, non lo è. Partiamo da una fotografia della situazione attuale.

Tassi di abbandono laurea
Tassi di abbandono del sistema universitario e di laurea, cumulati per anno di immatricolazione (lauree triennalii) (fonte: ANVUR, 2018)

Ad oggi, solo il 30% degli studenti delle lauree triennali è laureato dopo 3 anni dall’inizio degli studi. Per superare la metà bisogna andare a 5 anni dall’inizio degli studi – ripetiamo, per una triennale – quando il tasso di laureati sale al 53.3%. Anche a 8 anni dall’inizio, non si raggiunge il 60%, con una buona parte dei restanti che ha abbandonato. E meno male che l’Italia è uno dei relativamente pochi paesi europei che considera il tasso di completamento degli studi universitari come indicatore nelle procedure di valutazione della qualità:

Completition rate
Richiesta di monitoraggio del tasso di completamento come parte delle procedure di valutazione della qualità, anno 2014/2015 (Commissione EU, 2015)

Come recita il report della Commissione Europea (traduzione a cura nostra):

“Laddove il monitoraggio del tasso di completamento degli studi universitari è un requisito [nelle procedure di valutazione della qualità], è indicativo del fatto che esso venga effettivamente misurato, e che tale misurazione sia tenuta in considerazione nel processo di programmazione politica.”

E infatti, alla luce dei dati riportati sopra, il governo vorrebbe aumentare il numero degli iscritti annui a medicina dai 10mila attuali ai quasi 70mila che si iscrivono al test. Considerando poi che già oggi le borse di specializzazione (necessaria per praticare da medico) a disposizione sono circa 6mila, per non variare la proporzione dovrebbero essere aumentate a 42mila – il che tuttavia aumenterebbe enormemente il numero assoluto degli esclusi dalla specializzazione (quelli nel “limbo della formazione post-laurea”, come definita da Mario Mezzapesa). Comunque, dato che il costo a carico dello stato per formare un medico è di 150mila euro per la laurea e 200mila per la specializzazione, stiamo parlando di una manovra da 16.6 miliardi di euro annui, senza considerare i costi infrastrutturali (se non altro, capire come far entrare 70mila studenti in aule dove oggi ce ne stanno 10mila aumenterebbe l’occupazione di fisici ed ingegneri). Per avere un paragone, il budget per il reddito di cittadinanza messo a bilancio nel famigerato DEF è di 10 miliardi. Quindi speriamo che in Commissione Europea non abbiano fatto i nostri conti, e che non abbiano letto l’indicativo presente “si abolisce”… Oppure, il governo spera che le condizioni invivibili e la profonda incertezza di poter poi accedere ad una specializzazione rallentino ed infine allontanino molti aspiranti medici dalla laurea intrapresa, ottenendo così la botte piena e la moglie ubriaca: gloria eterna per aver abolito l’odiatissimo test, ad un costo contenuto perché tanto poi molti arrancano, e infine rinunciano. Andando così a rimpinguare le vergognose statistiche di ritardo e abbandono (sopra). E per fortuna che “il monitoraggio del tasso di completamento degli studi … è tenuto in considerazione nel processo di programmazione politica”!

Ma il discorso non va limitato a medicina, anzi! Ad oggi, dati Alma Laurea alla mano, il 48.9% degli studenti universitari italiani è fuoricorso, praticamente uno su due, e il 26% è fuoricorso di 2 anni o più. Eppure, il voto medio di laurea è 102,7. Nel caso specifico delle discipline umanistiche citate da Salvini, la percentuale di fuoricorso sale a 55%, ma sale anche il voto di laurea medio: 106,5. Come abbiamo poi notato in articoli precedenti, il tasso di occupazione nazionale ad un anno dalla laurea è del 55%, che nel caso delle discipline umanistiche scende a 47%, includendo anche chi continua a studiare e chi lavora in contesti in cui il suo titolo è inutile.

Parafrasando i dati, la laurea in Italia è completamente inflazionata. Il suo conseguimento non è garanzia di qualità ed impegno, così come non lo è il voto, inflazionatissimo. Il mercato lo sa, e i miseri risultati di impiego lo rispecchiano. In altri termini, manca il pedigree: la garanzia che chi è iscritto ad una certa università sia un candidato di valore per un employer, a prescindere dai voti. Per capirci, il pedigree delle grandi università globali, o delle eccellenze nostrane: Politecnici, Normale, Sant’Anna… Tutte università a numero chiuso, dove già l’ammissione è garanzia di qualità. Pedigree, appunto. Si dirà che la correlazione tra numero chiuso e qualità dell’ateneo sia tutta da dimostrare, e che correlazione non significa causalità. Ragioniamo dunque su questi due punti.

Autorità responsabile
Livello di autorità responsabile di determinare il numero di posti disponibili nel primo, secondo e terzo ciclo di studi universitari, anno 2010/2011 (Eurostat, 2012)

L’immagine rappresenta i paesi UE che hanno generalmente l’università ad accesso libero (blu) e quelli che l’hanno a numero chiuso (arancione e rosso). Se prendiamo poi le 200 migliori università del mondo (generalmente considerate la prima fascia di qualità nel ranking QS), vediamo che 90 sono europee. Di queste 90, ben 73 sono nei paesi arancioni e rossi. Le restanti 17 sono tra Italia, Francia e Belgio. Ben sette di esse però sono comunque a numero chiuso: tre delle quattro italiane (Politecnico, Normale e Sant’Anna) e i rispettivi politecnici e collegi francesi. Quindi, delle 90 migliori università europee, ben 80 sono a numero chiuso. Pubbliche, spesso semi-gratuite, e a numero chiuso. La correlazione è evidente, ma si può obiettare: chi dice che il numero chiuso sia una causa, e non invece un risultato della loro qualità? Ovvero, non è possibile che essendo università eccellenti esse ricevano migliaia di richieste d’iscrizione, e siano dunque costrette a chiudere il numero? Questa domanda è mal posta come quella dell’uovo e della gallina: è ovvio che tali università ricevano migliaia di richieste in quanto eccellenti, ed è ovvio che la selezione in ingresso certifica la qualità dei propri studenti ancor prima che si laureino, garantendogli il pedigree tanto ricercato dai datori di lavoro, aumentando quindi il prestigio dell’università. Un altro fattore è poi comune ai sistemi rosso-arancioni della mappa sopra. Primo, non esiste il fuoricorso: fallito un esame, si ritenta l’appello successivo. Fallito due volte, si è fuori. È così in Germania, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti e paesi scandinavi, tra gli altri. Questo implica che l’impegno richiesto sia maggiore, i laureati siano più giovani e i voti più bassi, ma più indicativi del livello di preparazione. E quindi c’è bisogno di studenti motivati e adeguati alla sfida. Ovvero, selezione in ingresso. E nonostante il numero chiuso, tutti quei paesi hanno (proporzionalmente) molti più laureati noi. Perché?

Chiudere il numero per aumentarlo, questo è l’ossimoro vincente. Chiudendo il numero, lo studente ottiene già il pedigree di essere tra i selezionati, aumenta il tasso di occupazione (matematicamente, perchè ci sono meno laureati, ma anche sostanzialmente, perchè avere una laurea significa qualcosa in più). L’università torna ad essere un investimento vincente per gli studenti che quindi hanno tutto l’interesse ad iscriversi ed impegnarsi per entrare e laurearsi. A quel punto si torna ad aumentare gradualmente il numero di ammessi fino anche ad un numero superiore all’attuale, che resta “chiuso” perché la base di studenti che provano ad entrare è superiore all’attuale. Mantieni quindi il pedigree, e di conseguenza un alto tasso di occupazione. Sarebbe tutto semplice, se non fosse solo metà della storia: finora abbiamo ignorato i motivi “strutturali” per cui la laurea è inflazionata e porta lo studente a rallentare ed andare fuoricorso. La selezione in ingresso sicuramente metterebbe più risorse a disposizione di ogni studente, ma non tutto è questione di soldi. Da un lato, i voti vanno curvati, ovvero spalmati su una distribuzione normale. Non possono prendere tutti 30, si fissa una media della classe e si valuta di conseguenza. Dall’altro, i professori non possono metterci settimane per rispondere ad una mail e mesi per correggere due pagine di tesi, o annullare gli appelli all’ultimo e così via. Si chiede un impegno diverso agli studenti, ma lo si chiede anche al corpo docenti e all’amministrazione. Forse è utopia, sicuramente è una manovra in totale contrasto con la politica elettorale che stiamo vivendo. Farebbe discutere, e darebbe i suoi frutti forse tra dieci anni. Ma ridarebbe all’università la dignità che merita, e con essa rilancerebbe l’occupazione giovanile, l’innovazione, la ricerca.

Resta poi un punto caldo: il diritto allo studio garantito dalla Costituzione. Tuttavia, i vari gruppi (soprattutto UDU e altre formazioni della sinistra radicale giovanile) che usano la Carta come scudo per la loro battaglia contro il numero chiuso, si scordano di citare una clausola fondamentale dell’Articolo 34:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. […]

Il diritto allo studio nei gradi più alti (università) non è indiscriminato, ma riservato ai “capaci e meritevoli”. Idealmente tutti potrebbero esserlo, ma secondo i dati riportati sopra non è così. E in linea con questo principio, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito che i test di ingresso non ledono al diritto allo studio garantito dalle convenzioni internazionali. O in altri termini, che non esiste un diritto a laurearsi. È tutt’altra l’esclusione che la Costituzione vuole evitare, provocatoriamente ricordata dall’immagine di Elizabeth Eckford in copertina a questo articolo. L’equità nell’ammissione non è a rischio se c’è un test con domande ambigue o complesse. È a rischio quando le condizioni di partenza sono diverse. Il miglior modo di rispettare l’Articolo 34 è quello di investire nelle scuole di periferia e di frontiera, perché la preparazione sia il più possibile uniforme; fornire borse di studio che contribuiscano anche a vitto e alloggio in alcune fasce di reddito; non fare sconti ad insegnanti inadeguati e commissioni corrotte; e così via. È difficile? Indubbiamente lo è, ma con riforme facili non si risolve nulla.

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