L’Academy aziendale tra occupazione e occupabilità

Nate alla fine degli anni Venti del secolo scorso in terra statunitense, in Italia le Academy aziendali (delle quali se ne può sentir parlare anche in termini di Corporate University) acquistano una parvenza di strutturazione e iniziano a diffondersi con diversi anni di ritardo. Unica eccezione può essere considerata l’embrionale, ma significativa attenzione riservata alla formazione del capitale umano già sul finire degli anni Cinquanta, grazie alle pionieristiche intuizioni del noto uomo d’impresa Enrico Mattei

È senza dubbio difficile, limitante e inutile darne una definizione, data l’eterogeneità di modalità e forme attraverso le quali si può manifestare. Per capire in linea generale cos’è e cosa rappresenta un’Academy aziendale, però, è doveroso parlarne in termini di formazione. L’intento primario è quello di integrare conoscenze e competenze in un’ottica che vuol essere – almeno teoricamente – altamente innovativa e con scopi professionalizzanti. Da non confondere per questo tali percorsi con gli ITS: la linea di demarcazione tra le due strutture formative è sì sottile in termini di intenzionalità e obiettivi, ma ben più evidente se ci si riferisce a modalità e tempi di erogazione o a legami con il mondo dell’istruzione “ufficiale”.

In tempi recenti l’importanza di queste scuole d’impresa si è fatta sempre più nevralgica, anche nel panorama nazionale. Complice lo stravolgimento tecnologico da cui chiaramente anche le aziende sono state investite, il loro potenziale è emerso soprattutto nella formazione e riqualificazione orientata al digitale. Basti pensare che solo nell’ultimo anno il numero di Academy è cresciuto in maniera esponenziale, nonostante già in periodo pre-pandemico la loro presenza fosse tutt’altro che irrisoria, come dimostra l’indagine condotta dal Sole 24 Ore, pubblicata nel gennaio 2020, dal titolo Academy Italia, le nuove scuole delle aziende. O anche secondo quanto trasmesso dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (Aidp) i cui dati evidenziano che già prima del 2020 il 95% delle aziende italiane prevedeva un discreto numero di attività formative. 

Una formazione bifronte

L’Academy ha doppia natura, acquista caratteristiche differenti in base alla tipologia di formazione erogata: l’una in ingresso, l’altra destinata a lavoratori già presenti nell’organico aziendale o anche a professionisti che ruotano intorno agli interessi dell’azienda. In merito a quest’ultimo scenario, dal momento che si fa un gran parlare di digital mismatch, emerge con forza il bisogno di colmare carenze digitali a causa delle quali i posti di lavoro tenderebbero a essere sempre meno adatti al tipo di formazione al quale si è ancora troppo orientati e ancorati in Italia. È in un certo senso un’operazione di salvaguardia dell’occupazione, per evitare che la facile e naturale tendenza all’obsolescenza delle competenze dei lavoratori formatisi in una dimensione lavorativa differente crei svantaggi al singolo o ancor peggio all’ecosistema aziendale. Non è, però, più solo questione di innovazione: l’Academy pare rappresentare lo sforzo di costruire un patrimonio di conoscenza dell’impresa, un investimento che in quanto tale sia capace di restituire un arricchimento, non solo e non per forza monetario; c’è dunque in ballo anche il principio della conservazione. In questa visione l’intento è quello di creare nel migliore dei casi un vero e proprio ponte tra innovazione e conservazione. 

È, però, la formazione in ingresso quella più significativa al fine di un’analisi che faccia leva sul ruolo dell’istruzione e non di meno sull’importanza dell’occupabilità, soprattutto giovanile. Molte Academy che erogano formazione in ingresso si presentano come opportunità per colmare il divario di conoscenze e competenze tra gli atenei italiani e le grandi aziende sparse sul territorio nazionale.

Particolarmente richiesti sono quelli che vengono genericamente definiti, in maniera anche piuttosto infelice, “profili STEM”: coloro che seguono un corso di studi afferente al mondo scientifico-tecnologico. Un minimo sguardo di interesse lo si rivolge anche ai laureati di ambito umanistico, non tanto per posizioni in linea con i loro corsi di studio, ma proprio perché la richiesta in alcuni specifici settori, soprattutto quelli tecnologici, è ben più alta dell’effettiva disponibilità di risorse. Si propongono perciò dei percorsi solitamente di alcuni mesi, e si creano profili ad hoc in base alle specifiche esigenze aziendali per le quali la scarsità di risorse è più ingente. Ci sono esempi di aziende che organizzano percorsi addirittura rivolti a sole laureate donne in discipline umanistiche per formarle sulla Cyber Security o su specifici linguaggi di programmazione: iniziative che si inseriscono nella scia di tentativi per superare un gap di genere, che non accenna a colmarsi in maniera naturale -ma questa è decisamente un’altra storia, ndr.

Le realtà della formazione in ingresso

In alcuni casi la formazione rimane troppo generale o esclusivamente teorica, tanto da non poter colmare la mancanza di conoscenze o da non poter creare le basi per competenze più uniformi e spendibili. Una delle principali cause di tutto ciò sono le poche interazioni strutturate con le università. Del resto, è naturale: quando si parlano lingue diverse il dialogo è quantomeno difficile. In altri casi, invece, si rischia di formare la persona a specifiche hard skills richieste dalle aziende che erogano la formazione, togliendo così la possibilità ai lavoratori di potersi muovere più liberamente nel mondo del lavoro, come invece dovrebbe essere. Questo tende a far pensare che in qualche modo si tratta di un tentativo di formare primariamente costruito negli interessi dell’azienda, più che di una formazione volta all’arricchimento dei nascenti lavoratori, siano essi neodiplomati o neolaureati, desiderosi di acquisire competenze non così settoriali e unilaterali, ma spendibili nell’intero ecosistema lavorativo di interesse. 

In più, il tasso conseguente di occupazione di tutte queste opportunità di crescita professionale non è in tutti i casi del 100%. Soprattutto le piccole e medie imprese tendono a erogare Academy per un numero di corsisti superiore alle effettive posizioni aperte o quantomeno messe a disposizione. Essere formati secondo la linea di specifiche esigenze e politiche di una data azienda per poi ritrovarsi senza un’occupazione è decisamente singolare. Che spreco di risorse, economiche e umane! Diverso ovviamente il caso in cui le posizioni offerte per la formazione sono in linea con le richieste effettive dell’azienda.

Senza voler esagerare, è piuttosto facile comprendere che i giovani laureati non sentano il bisogno di ulteriore formazione, se continuare a formarsi è un’ennesima strada senza uscita. Sarebbe tempo di maggiore scambio e reciproco ascolto tra mondo dell’istruzione, in particolare accademico, e imprese. Alcuni esempi ci sono, ma in questi casi c’è bisogno di molteplici voci per creare un coro che possa raggiungere più sonorità, così da favorire reale arricchimento di conoscenze e tangibile integrazione di competenze, naturalmente non fini e se stesse. 

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